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Non ci sono scorciatoie!

Secondo Marx, “all’intuizione popolare, che vede il denaro apparire e scomparire meno spesso in tutti i punti periferici della circolazione quando rallenta il corso del denaro, sembra ovvio interpretare le crisi come insufficienza della quantità dei mezzi di circolazione”. Un luogo comune che sentiamo continuamente ripetere a tutti i livelli della società, con l’affermazione che il nostro problema consisterebbe nel fatto che “non ci sono i soldi!”. Che cosa ci sarebbe di più ovvio e ragionevole dell’immettere nel sistema i soldi che mancano, per ristabilire un fisiologico andamento della riproduzione? Ma la società non è un’automobile che ha finito la benzina della quale deve essere rifornita. Si tratta, semmai, di un organismo complesso, del quale occorre comprendere il fenomeno contraddittorio che si è instaurato.

 

Com’è sempre accaduto in occasione delle crisi, anche ai nostri giorni vengono avanzate proposte che affrontano il problema senza scostarsi dall’intuizione popolare. Esse eludono però i vincoli sottostanti alla soluzione del problema, mostrandosi così del tutto velleitarie. Prendiamo il recente appello sottoscritto da alcuni studiosi di sinistra, pomposamente definito come “Risoluzione immediata della crisi in Italia”, secondo il quale per “Uscire dalla depressione si dovrebbe procedere all’emissione di ‘moneta statale’ a circolazione interna”. La proposta è facilmente comprensibile. Lo stato italiano dovrebbe emettere dei Certificati di Credito Fiscale da distribuire direttamente e gratuitamente a cittadini e imprese, che potrebbero usarli anche nei rapporti di scambio correnti, proprio per mettere nelle mani di questi ultimi la moneta che manca. In tal modo il sistema si rimetterebbe in moto, perché aumenterebbe la domanda, diminuirebbe il costo del lavoro, con un effetto positivo sulla crescita del PIL e dell’occupazione. Questi Certificati, da emettere fino ad un massimo di 200 miliardi annui, potrebbero essere usati, “dopo due anni dall’emissione, per pagare qualsiasi tipo di impegno finanziario verso la pubblica amministrazione”. Essendo però anche immediatamente spendibili come denaro, questi titoli “opererebbero come una moneta nazionale complementare all’euro”, generando quella capacità di spesa che la mancanza di soldi sta inibendo. Che cosa c’è che non va in questa proposta?

 

Innanzi tutto i suoi sostenitori affermano che essa “non genererebbe debito”. Ma è veramente così? Che cos’è il debito? Non è altro che una somma che dovrà essere restituita in futuro. Nel momento in cui lo stato anticipa oggi denari che dovrebbe riscuotere in futuro si indebita, né più e né meno di come fa qualsiasi impresa che si rivolge ad una banca chiedendo che i soldi che ricaverà in futuro dalla sua attività gli vengano anticipati, salvo poi restituirli quando i ricavi futuri interverranno. Come fanno le banche quando concedono un anticipo, che iscrivono nel loro bilancio una passività corrispondente al prestito, così deve fare lo stato nel momento in cui concede ai cittadini e alle imprese di entrare in possesso oggi dei soldi che gli restituiranno domani. Certo, se si falsifica la contabilità si può omettere di registrare la partita passiva, ma essa interverrà comunque nel momento in cui i cittadini e le imprese pagheranno le imposte non con i loro denari, bensì facendo valere i crediti fiscali che sono stati regalati loro dallo stato. In altri termini, il debito sembrerà non esserci solo perché resterà occulto fino al momento della riscossione delle imposte.

 

Per comprendere appieno il senso di questa critica si deve tener presente uno dei passaggi essenziali del pensiero keynesiano: il denaro è sempre un rapporto bilaterale. Nel momento in cui lo stato emette i Certificati in questione la fa perché sa che i cittadini e le imprese gli dovranno versare imposte per un importo equivalente. Per registrare coerentemente questo rapporto deve contabilizzare la sua rinuncia attuale a quelle entrate future, iscrivendole come passività corrente, da equilibrare nel momento in cui i crediti verranno versati in sostituzione delle imposte future. Senza questa operazione, che comporta un aumento del debito, quello che viene immesso in circolazione non sarebbe un vero e proprio denaro, ma una sorta di dono che lo stato fa a se stesso e ai cittadini e alle imprese.

 

Nella proposta non è chiarito se al momento in cui lo stato si vedrà “pagare” le imposte con i Certificati considererà quel pagamento come entrate effettive, immettendo di nuovo in circolazione i Certificati, o se invece provvederà a distruggere i titoli di credito, registrandoli come mancate imposte. E’ ovvio che nella prima ipotesi si tratterebbe di una vera e propria moneta aggiuntiva immessa in circolazione, mentre nella seconda ipotesi si tratterebbe solo di uno “sconto fiscale”. Per eludere questo problema, i sostenitori della proposta ipotizzano che intervenga un aumento del PIL tale da permettere allo stato di rinunciare a quelle entrate, perché esse sarebbero compensate dalle maggiori entrate in termini assoluti, nonostante la riduzione delle aliquote corrispondente all’attribuzione gratuita dei Certificati di credito fiscale. Ma se nell’arco di appena tre anni verrebbero immessi crediti fiscali per un ammontare complessivo di 500 miliardi di euro (ipotesi degli estensori della proposta), le entrate dello stato dovrebbero aumentare in conseguenza della crescita del PIL dello stesso ammontare, perché altrimenti lo stato si vedrebbe costretto a tagliare le sue spese per la somma mancante. Ma il PIL italiano è attualmente di poco superiore ai 2.000 miliardi, supponendo anche che in tre anni si riesca a farlo crescere del 15% (ipotesi degli estensori della proposta) ciò corrisponderebbe a soli 300 miliardi. Anche considerando che i Certificati non verrebbero fatti valere tutti insieme e a breve scadenza, è molto probabile che si determini uno squilibrio nei conti pubblici, al quale bisognerebbe far fronte.

 

Se la proposta mi appare debole sul piano tecnico, lo è ancor di più sul piano teorico. Gli autori sostengono che “il sistema della moneta unica … è diventato un freno per la crescita dell’Eurozona e di ogni singolo paese”. Ma si tratta, anche qui, di un’affermazione mutuata dal senso comune prevalente. La crisi che ha determinato un sostanziale ristagno dell’economia europea non è qualcosa che è esploso a partire dal 2008, bensì risale alla fine degli anni Settanta, quando si è stati incapaci di far fronte alla crisi delle politiche keynesiane. Da allora ci si è affidati ai neoliberisti i quali hanno confuso gli effetti di una speculazione finanziaria che favoriva un’inflazione dei valori del capitale (asset price inflation), sostenuta dal quantitative easy della FED, con una ripresa dell’accumulazione. Certo chi immagina che quella degli anni Novanta e del primo decennio del duemila come una situazione fisiologica può oggi propendere per una sua emulazione. Ma chi sa riconoscere la dinamica evolutiva della crisi non può essere d’accordo.

 

Come abbiamo visto la tesi sottostante alla proposta è che la produzione sia limitata dalla mancanza di denaro e immettendo denaro il prodotto torni a crescere. Ma si tratta di una rappresentazione feticistica delle relazioni produttive. Infatti il denaro manca non perché non ci sia, ma perché non circola, e cioè perché l’atto che normalmente media la cooperazione produttiva - la spesa – non viene praticato nella misura necessaria e possibile. Non è cioè la cosa nella quale si raffigura il potere di spendere che manca, ma la tendenza a spendere da parte di coloro che ne dispongono. Questo è un problema col quale i rapporti capitalistici hanno dovuto fare i conti ripetutamente nel corso del loro sviluppo, ed è stato affrontato. Inizialmente la risposta è stata quella dello sviluppo del credito. Questo comporta l’immissione di denaro addizionale, rispetto ai redditi nei quali si concretizza il prodotto passato, proprio per permettere a quella parte di esso che non ha già il suo equivalente di entrare in circolo. Vale a dire che poiché da ogni ciclo produttivo scaturisce un prodotto eccedente che non è stato pagato, si deve creare artificialmente il valore che lo compera. Ciò che accade con il moltiplicatore dei depositi, che consente alle banche di creare il denaro necessario. Ma le banche procedono in questa direzione solo fintanto che sono sicure che quelle anticipazioni di valore si trasformeranno effettivamente in un valore futuro, attraverso l’uso produttivo di quel plusprodotto. Per questo il credito non funziona in occasione delle crisi, quando questa prospettiva scompare. E’ qui che prende corpo il keynesismo, che muove proprio dal riconoscimento che il meccanismo del credito non permette di superare le crisi. Anche se il denaro venisse immesso in circolazione esso finirebbe nella trappola della liquidità, cioè soffrirebbe dell’incapacità delle aziende di procedere sulla via della crescita. E’ questa la ragione per la quale lo stato si deve sostituire alle imprese spendendo direttamente nella produzione. Fintanto che il sistema gode ancora di un margine di sviluppo sulla base del rapporto di valore – ciò che viene confermato dagli effetti moltiplicativi della spesa pubblica – questa strategia funziona. Ma quando il moltiplicatore cade a livelli irrisori nemmeno la spesa pubblica garantisce più una copertura spontanea delle spese ad aliquota invariata. E’ qui che lo stato sociale si incarta, perché non ha compreso che si è dissolta la base stessa del processo riproduttivo rappresentata dal rapporto di valore.

 

Ora, il superamento del rapporto di valore è cosa complessa e non sto qui, ovviamente ad affrontarla. Tuttavia mi preme sottolineare un punto. La proposta si illude che la struttura delle relazioni sociali possa restare immutata e basti immettere in circolazione il denaro mancante per riprodurre il rapporto alla base della società (ché altrimenti non si parlerebbe di una “soluzione della crisi”). Ma se sono vere le ipotesi di Marx e di Keynes questa strada è bloccata. Non nego che se i cittadini e le imprese si vedranno piovere addosso centinaia di miliardi regalati possano aumentare le loro spese, ma ciò costituirebbe solo una toppa transitoria al problema della crisi. Il senso della tesi keynesiana, che nelle crisi si presenta un problema di domanda, va compreso in tutta la sua estensione. Fintanto che la società è povera si può sostenere la domanda con la spesa, anche se è sempre meglio farlo con interventi produttivi. Ma quando la società è giunta alle soglie dell’abbondanza, l’inadeguatezza della domanda aggregata dimostra solo che gli individui non sanno più cooperare in modo da garantire un ulteriore sviluppo, appunto perché questo può intervenire solo trascendendo il rapporto di valore. Certo nella proposta c’è un oscuro movimento in questa direzione, visto che quelle centinaia di miliardi affluirebbero a imprese e cittadini senza la contropartita di un equivalente. Ma i mutamenti sociali sono molto più complessi di simili pratiche che ricordano troppo da vicino gli atti magici dei nostri antenati.

 

C’è, infine, un problema dirimente che dimostra l’ingenuità della proposta. Si fa presto a dire che si “debbono assegnare circa 70 miliari di CCF ai lavoratori dipendenti e autonomi ogni anno in funzione inversa del loro livello di reddito”. Ma, a parte che in tal modo si nega il problema dell’infedeltà fiscale, non va ignorato quello che è sempre successo in occasione di qualsiasi intervento di distribuzione unilaterale di risorse (borse di studio, danni da calamità naturali, ecc.) . Normalmente si sono scatenati conflitti tra i vari soggetti che si sono dimostrati irrisolvibili, con un peggioramento della capacità cooperativa. Tutto ciò vale, ovviamente, anche per gli 80 miliardi previsti per le imprese private, e per i 50 miliardi da impiegare in iniziative pubbliche. Lungi dal favorire un fisiologico recupero della cooperazione questi interventi, con ogni probabilità, scatenerebbero una vera e propria babele sociale dalla quale sarebbe impossibile uscire.

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