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Quaderni di Formazione online

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QUALE SOGGETTO PER LA RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO?

 

Giovanni MAZZETTI

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Da anni cerco di richiamare l’attenzione dei diversi interlocutori con i quali mi confronto sui problemi del lavoro su una questione fondamentale: non si può comprendere la rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro se non si sa sperimentare il fenomeno della disoccupazione diversamente da come vien spontaneo fare nell’ambito dei rapporti sociali che danno forma alla nostra esistenza.  Ritengo infatti che la pretesa di discutere del problema, con la speranza di ottenere dei risultati positivi di reciproca comprensione, senza che la discussione si accompagni al prender corpo di questa diversa esperienza - a questa “traduzione” di significato - sia decisamente illusoria.  Per rendere la cosa figurativamente, equivale a voler discutere di uno scritto di un autore italiano con uno straniero che non conosce la lingua, senza però nemmeno accennare al suo contenuto in un linguaggio che conosce.

 

Ricordo ancora una serie di articoli  di quindici anni fa per il manifesto nei quali, sollecitando una strategia finalizzata a ridurre l’orario, ponevo l’interrogativo: “che cos’è la disoccupazione?”, e tentavo di abbozzare una critica nei riguardi della risposta che scaturiva dal senso comune prevalente.   Si trattava però di una domanda che deve esser suonata estranea alla maggior parte dei lettori, se una prima rozza discussione politica sulla possibilità di una riduzione generalizzata della settimana lavorativa ha potuto essere avviata, per di più senza grandi entusiasmi collettivi, solo a così grande distanza di tempo.  E che deve essere sembrata strana agli stessi componenti della redazione, se nessuno di loro ritenne di dover allora intervenire con un suo contributo o comunque di non chiudere frettolosamente il dibattito. Il trascorrere del tempo non sembra aver d’altronde inciso profondamente sull’atteggiamento prevalente, poiché, ancora oggi, nonostante si sia cominciato a discutere di riduzione d’orario, il farlo prendendo le mosse da quella domanda, causa un evidente disagio in chi se la vede proporre.  Solo quello sguardo di sufficienza, dietro al quale si nascondeva la fantasia “ma questo deve proprio essere matto”, comincia a diventare sempre più raro. Negli ultimi tempi si sono cioè allentati i meccanismi difensivi, mentre l’angoscia generata da un interrogativo apparentemente incomprensibile tende ad essere ancora consistente.

 

Ma perché la capacità di chiedersi “che cos’è la disoccupazione” è così essenziale?  Vorrei rispondere con le motivazioni che avrei fornito fino ad uno o due anni or sono, e con un’anticipazione di quelle più precise che mi sento di poter dare ora e che cercherò di esporre dettagliatamente nelle pagine che seguono.  In passato avrei risposto, come spesso ho fatto: mi sembra che l’interrogativo racchiuda in sé il costituirsi di un insieme di forze soggettive, corrispondenti ai bisogni e alle forme dell’esperienza e del pensiero, senza le quali è addirittura impossibile immaginare l’avvio di un processo di sviluppo  che passi attraverso la  riduzione del tempo di lavoro. Insomma, avrei sottolineato che il perseguimento della riduzione dell’orario di lavoro non è possibile senza il costituirsi del soggetto che cerca di soddisfare questo bisogno, e che l’interrogarsi sulla natura della disoccupazione è uno dei momenti essenziali della genesi di questa soggettività. Allora non avrei saputo descrivere analiticamente il processo di formazione di tali forze.  Ma la mia risposta mi appariva, come ora cercherò di spiegare, comunque sensata.

Ultima modifica: 20 Settembre 2023