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Quaderni di Formazione online

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TRE DOCUMENTI RELATIVI AD UN MOMENTO CHIAVE (1983) DELL’INSTAURARSI DELLA CRISI ATTUALE

 

A) APOLOGIA DELL’INFLAZIONE                                          GIOVANNI MAZZETTI

 

B)  CONTRO L’INFLAZIONE. Risposta a Mazzetti                    MICHELE SALVATI

 

C)  IMMODESTIA E INFLAZIONE  Replica a Michele Salvati   GIOVANNI MAZZETTI

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Presentazione

 

1. Ogni generazione passa alle successive una serie di conquiste materiali nelle condizioni di vita che ha realizzato durante la sua esistenza.  Nel nostro caso, ad esempio, si tratta dell’acqua corrente direttamente a casa, invece che da attingere alle fontane pubbliche o addirittura alla sorgente; dell’illuminazione elettrica pubblica e privata, al posto delle torce e delle candele; della capacità di leggere e di scrivere, invece di far affidamento sulla sola trasmissione orale del sapere; dello sviluppo della medicina scientifica, al posto delle pratiche magiche preesistenti; delle forme di comunicazione istantanea a distanza, in luogo delle vecchie lettere postali; ecc.  Ma quasi sempre trasmette allo stesso tempo la convinzione, delle generazioni che quelle conquiste hanno realizzato, che il modo in cui esse sono state acquisite sia qualcosa di intrinseco ad esse, e quindi insuperabile.  Come sottolinea Marx, riferendosi ad un aspetto di quest’intreccio tra innovazione e conservazione, poiché i borghesi hanno introdotto il sistema industriale di produzione, si giunge maldestramente alla conclusione che gli impianti industriali non possano esistere altrimenti che come capitale.

La comprensione di ciò che è implicito in questo modo di comportarsi è complicata dal fatto che, non diversamente dagli altri animali, gli esseri umani tendono a sottrarsi ai cambiamenti quando questi sembrano non essere stati determinati dalla loro volontà.  E infatti in un primo momento rifiutano ciò che contraddice le loro aspettative “spingendo per ripristinare lo stato di cose precedente”; stato di cose che, “l’influenza perturbatrice di fattori considerati esterni” tende a modificare .  Ciò comporta che essi sono in grado di metabolizzare spontaneamente i mutamenti solo fintanto che questi non mettono in discussione il loro specifico modo di essere umani, che si concretizza nelle forme di relazione e di cooperazione produttiva attraverso le quali hanno imparato ad estrinsecare la loro esistenza.  Poiché l’impiego di queste nuove forze produttive - cambiando il mondo in cui siamo immersi – fa però emergere nuovi problemi, spesso non previsti e non prevedibili, si instaura uno stato confusionale relativo al modo in cui interagire con essi, perché gli individui non sanno ancora riconoscerli come un loro prodotto, proprio a causa che disorientamento che causano.  Per questo essi vengono collocati, in opposizione al fisiologico, nella sfera del cosiddetto “male”. Coloro che sentono invece di doversi confrontare con la nuova situazione negativa, prendendola come punto di partenza di un loro possibile contributo, per farla entrare positivamente nella vita, vengono così emarginati, in quanto favorirebbero l’ingresso nel mondo umano di mostruosità sociali, che dovrebbero esserne espunte.

È il problema col quale dovette fare i conti a suo tempo Keynes, quando scrisse:

"Ciò che alcune persone considerano come controverso oltre il necessario è sostanzialmente dovuto all'importanza che ha nella mia mente quanto ero solito credere e i momenti di transizione che sono stati per me momenti di illuminazione. Tu (Harrod) [essendo giovane] non senti il peso del passato come accade a me. Non è possibile disfarsi di un bagaglio che è sempre stato portato controvoglia. E il tuo ignorare tutto ciò è probabilmente un approccio più vantaggioso del mio. L'esperienza sembra infatti indicare che la gente è divisa tra i vecchi, che non si sposteranno per nulla da ciò che credono, e sono solo infastiditi dai miei tentativi di sottolineare i punti di transizione così vitali per il mio progresso, e i giovani che non sono stati formati in modo appropriato e che non credono sostanzialmente in nulla di particolare. Gli spiragli di luce che si colgono fuggendo da un tunnel non interessano né quelli che vogliono restarvi dentro, né quelli che non ci sono mai stati! Non ho compagni, sembra, nella mia generazione, siano essi docenti o studenti di ieri: ma non posso fare a meno nel pensare di sentirmi vincolato a loro - fatto questo che essi trovano estremamente irritante".

Keynes, infatti, a differenza dei suoi colleghi economisti, decise di confrontarsi con la profonda confusione che aveva investito il mondo dopo la Prima guerra mondiale, invece di accarezzare l’illusione che, allora come oggi, “tutto sarebbe tornato come prima”.  Gli ci vollero ben vent’anni di riflessione per giungere alla Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, che fornì una solida base teorica a quei profondi cambiamenti che - grazie alla sua interpretazione eterodossa della Grande Crisi e delle devastazioni della Seconda guerra mondiale - ci permisero di avviare quella nuova fase di sviluppo, che abbiamo definito come Welfare State.

 

2. Perché Keynes incontrò quelle difficoltà non solo ad essere accettato, ma anche ad elaborare la sua stessa teoria in maniera consistente?  Perché, consapevole della lacerazione insita nel percorso conoscitivo che stava intraprendendo, in un primo momento cercò di trovare una soluzione allo stato di confusione - che si espresse inevitabilmente anche in un disordine monetario, con prezzi che in quasi tutti i paesi, aumentarono del 100 o più per cento - all’interno del sistema dato.  Ancora in La riforma monetaria, del 1925, scritta nello stesso anno in cui proclamava La fine del laissez faire, sostenne, infatti, che un severo controllo della politica monetaria, che si spingesse al di là del principio prevalente di limitare l’emissione di carta moneta all’ammontare delle riserve auree disponibili, potesse bastare.  Tuttavia lungo la strada, con il Trattato sulla moneta del 1930, cominciò a rendersi conto che ciò non sarebbe stato sufficiente, perché i disordini monetari costituivano solo un riflesso di problemi più profondi, che rinviavano agli stessi meccanismi di funzionamento del sistema in generale.  Un radicale cambiamento che ebbe una sistemazione coerente solo nel 1936 nella Teoria Generale.

Non è un caso che questo testo non trovò al momento della sua pubblicazione un’accoglienza favorevole.  La forma del pensiero dominante dell’epoca impediva la sua metabolizzazione.  Ci volle, come sappiamo, una nuova guerra e la prostrazione della società, per svuotare quel pensiero della sua presa sul senso comune, favorendo un’apertura a modi di pensare, etichettati come eterodossi.

 

3. La fase storica che stiamo attraversando è, purtroppo, una sorta di ripetizione, da parte del senso comune, del rifiuto di qualsiasi pensiero critico come portatore di pericolose eresie sociali.  E i tre documenti che pubblichiamo ne costituiscono una testimonianza.

 

Cerchiamo di sintetizzare il nocciolo della controversia.

La tesi che avanzavo nel primo testo qui riprodotto è abbastanza semplice: bisogna imparare a sperimentare l’inflazione come un fenomeno diverso dal passato, quando il mercato sovrastava il potere degli agenti economici.  Basta prendere una qualsiasi serie storica dell’andamento dei prezzi tra il 1770 e il 1980 per rendersi conto che mentre prima i prezzi oscillavano ampiamente in aumento e in diminuzione, con scostamenti spesso pari al 50% in più o in meno, dalla fine della Seconda guerra mondiale le oscillazioni erano molto più contenute (con una media del 3/5% ed un massimo del 25%), ma intervenivano solo in aumento.  La dissociazione tra ristagno economico e caduta dei prezzi testimoniava, a mio avviso, l’emergere di un diverso rapporto con il sistema dei prezzi, che andava analizzato.

Nel mio scritto avevo prospettato l’aspetto positivo di questo cambiamento, corrispondente al fatto che il suo verificarsi dimostrava che i soggetti economici avevano acquisito una capacità nuova di socializzare l’attività produttiva (rapporto tra bisogni e produzione) che si concretizzava in un rozzo controllo dei loro prezzi di vendita, invece di continuare a piegarsi passivamente alle spinte oggettive provenienti dal mercato.  Si trattava di un cambiamento che, a mio avviso, andava nella direzione auspicata da Marx, di un abbozzo – seppur contraddittorio - di socializzazione del processo produttivo.  Concludevo il mio scritto sottolineando, però, che era indispensabile non ignorare l’aspetto negativo dell’inflazione, perché essa costituiva solo un momento del cambiamento che, per trasformarsi in una conquista sociale consolidata, richiedeva ulteriori radicali mutamenti delle pratiche sociali e del pensiero.

 

4. Non bisogna dimenticare che all’epoca lo scontro sociale stava raggiungendo il culmine, con la decisione di Andreatta, Ministro del Tesoro, e Ciampi, Governatore della Banca d’Italia, di rendere l’Istituto Centrale autonomo dalle politiche pubbliche, e cioè non più vincolato a sottoscrivere i titoli emessi per coprire le spese dello stato in deficit, che non trovavano copertura sul mercato finanziario. Una pratica che, introducendo il sistema dei diritti sociali, aveva contribuito all’evoluzione nella direzione di un ridimensionamento del potere esteriore del mercato. Il provvedimento Andreatta-Ciampi riconduceva, invece, il funzionamento del sistema economico nei limiti del modo di procedere prekeyenesiano.  Vale a dire che, con esso, si rispondeva alla crisi del keynesismo, esplosa nella seconda metà degli anni settanta, in modo regressivo, riaffidandosi ad un mercato che non era più lo stesso del passato.

Quest’intervento fu seguito, di lì a poco, dalla decisione del governo Craxi, di sterilizzare il meccanismo della scala mobile, conquistato un decennio prima, per adeguare i salari dall’aumento generale dei prezzi.  Poiché l’esplorazione degli aspetti potenzialmente positivi dell’esplodere dell’inflazione fu avvolta da tutta una serie di condanne e di tabù - delle quali la replica di Salvati è solo un frammento - quando i cittadini furono chiamati a sostenere il referendum che aboliva il blocco della scala mobile, optarono per la scelta conservatrice, che confermava quel provvedimento.  I lavoratori furono così privati di quel meccanismo difensivo, essenziale per non impoverirsi.  E il potere di incidere sul proprio prezzo di vendita restò appannaggio unilaterale delle sole imprese.

 

5. La decisione se accettare o meno di pubblicare il mio scritto aprì un dibattito nella redazione di Quaderni Piacentini, una rivista della sinistra critica, con Salvati che cercò di ostacolarla, considerandola solo distruttiva.  Si giunse poi alla decisione di pubblicarlo con un suo commento critico.

Nella sua replica, Salvati mostrava di non riuscire nemmeno a concepire il problema che avevo sollevato.  Per lui non ci trovavamo di fronte ad una situazione nella quale il rapporto di denaro aveva subito una drammatica disgregazione, per la dissoluzione delle condizioni che lo rendevano coerente con i rapporti sociali preesistenti.  L’inflazione degli anni settanta non costituiva, cioè, il segno di un rovesciamento del modo in cui gli individui e le classi interagivano nel processo riproduttivo, ma solo un disordine momentaneo dettato da comportamenti trasgressivi, non diverso da quelli intervenuti ricorrentemente nell’Ottocento. Un disordine al quale occorreva porre rimedio, rientrando nei limiti comportamentali corrispondenti al rispetto dei rapporti di mercato. Nonostante le imprese si fossero spinte molto avanti nell’abbattere quei limiti, bisognava riprendere a rispettarli. L’obiettivo da perseguire sarebbe così stato, come scrive, quello di una “rivitalizzazione del mercato” e l’elaborazione di un “patto sociale” in modo da “tornare a competere efficacemente sui mercati internazionali”.

 

6. Nel suo scritto, Salvati poneva un interrogativo dirimente: “per la sinistra l’inflazione è un male oppure no?”  Sottolineando che se si opta per il primo giudizio, come lui giudicava sensato fare, non si può non combatterla.  Qui sorge un problema che all’epoca non ho saputo contrapporgli: è mai esistito un cambiamento storico radicale delle condizioni culturali e materiali dell’umanità che alla maggior parte dei contemporanei non apparisse come un male?  I cristiani che spingevano per un superamento del politeismo e dell’idolatria non furono forse a lungo perseguitati, come criminali?  E lo stesso Gesù non fu crocifisso per la sua predicazione, come un qualsiasi fuorilegge, delle migliaia che subirono la stessa sorte all’epoca?  Per tornare sulla terra: Galileo non fu forse sottoposto a processo e costretto a dichiararsi un “delinquente” per il male che scaturiva dalle sue scoperte?  L’introduzione dei numeri arabi e dello zero non scatenò una paura incontenibile nella Firenze del XIII secolo, che li proibì come una pericolosa magia saracena?  E per scendere ancora più in basso, non accadde che perfino i più ingenui mugnai del tardo medioevo, come ci ricorda Ginsburg, nel suo Il formaggio e i vermi, fossero bruciati sul rogo perché stavano imparando a leggere e a parlare liberamente di ciò che leggevano, facendo così “del male”?  Un male che si cercò di ostacolare con la censura dei tribunali ecclesiastici e con l’Indice dei libri.

Come sottolinea Marx nell’Ideologia tedesca, “lo sviluppo delle forze produttive sfocia sempre”, ad un certo punto, in una dinamica nella quale, coloro che si sentono appagati dalle relazioni sociali dominanti, sostengono che “farebbero solo del male”.  Questo perché ci si è spinti oltre i limiti della formazione sociale attraverso la quale quelle forze sono state conquistate, ma non si sa ancora imbrigliarle in modo da renderle coerenti nella forma, conquistando un nuovo assetto sociale nel quale possano estrinsecarsi in modo positivo.

È quanto è successo con il superamento della subordinazione al mercato, sfociata in inflazione quando i lavoratori hanno cercato di conquistarla a loro volta. È ciò che è accaduto con l’innovazione tecnologica impetuosa, sfociata nella disoccupazione strutturale, da quando ci si è sbarazzati degli insegnamenti di Marx e di Keynes.  E’ quanto sta accadendo con comportamenti che, non tenendo conto dei limiti imposti dal rispetto degli equilibri ecologici, stanno sfociando in una situazione critica che minaccia il futuro dell’umanità.

 

7. Certo, Salvati si rifaceva all’insegnamento di alcuni guru economisti dell’epoca che, come Modigliani, avevano introdotto il concetto di “tasso naturale di disoccupazione, per sottolineare che il sistema non poteva procedere a garantire il pieno impiego senza determinare una svalorizzazione del denaro accantonato.  Cosicché occorreva sbarazzarsi delle politiche del pieno impiego, perché inflazionistiche.  Ma proprio l’idea che fosse emerso un nesso inverso tra occupazione e inflazione testimoniava che il meccanismo di funzionamento dei rapporti capitalistici si era definitivamente inceppato. In questi rapporti il profitto, a differenza della rendita, può scaturire unicamente dal reimpiego della forza lavoro risparmiata con l’innovazione in un nuovo lavoro.  Ma se quest’impiego determina una disgregazione del rapporto di denaro, l’intero sistema va verso il suo crollo.

A questo blocco i lavoratori non hanno dapprima saputo reagire altrimenti che trattando il tentativo delle imprese di conquistare comunque un profitto attraverso la manipolazione unilaterale dei prezzi come un arbitrio, al quale si poteva porre rimedio con la conquista di un potere difensivo corrispondente.  Ma si trattava di un contrasto da sostenere e da approfondire criticamente o un qualcosa di eretico da contrastare?  Non bisognava piuttosto riandare al Marx di Salario, prezzo e profitto, per riconoscere che “nella lotta puramente economica il capitale è il più forte”, ed individuare le forme politiche con le quale “tendere a conseguire una partecipazione ai frutti dell’aumento delle forze produttive” per una via diversa da quella della mera lotta sul salario?

 

8. La società si mosse negli anni successivi proprio nella direzione auspicata da Salvati, illudendosi che in tal modo sarebbe nuovamente tornata ad uno sviluppo comparabile con quello del trentennio keynesiano.   Nella realtà, però, queste aspettative andarono totalmente deluse e ormai da quarant’anni soffriamo di una fase di ristagno che sembra non avere mai fine. È consapevole Salvati, e i politici e sindacalisti che si sono affidati a chi la pensava come lui, di aver contribuito a questo regresso?  Vede il nesso esistente tra la sua lotta contro l’inflazione e i miseri salari di cui godono oggi i lavoratori?     L’idea che il potere appena conquistato dai lavoratori, di contrastare una trasformazione unilaterale del mercato a loro danno, “per accantonarlo in vista di qualche progetto desiderato di trasformazione della società”, come affermava Salvati, corrisponde al rifiuto di confrontarsi con le contraddizioni, quando emergono. Ciò dimostra che, purtroppo, buona parte della cosiddetta sinistra si ammanta di idealismo, proprio nel momento in cui si dovrebbe confrontare creativamente con le difficoltà imposte concretamente dall’evoluzione sociale, accettando che nel mondo c’è qualcosa che non è immediatamente in grado di capire.

Se non ci si sporca le mani, immergendosi nella contraddizione quando emerge, si possono solo formulare sermoni su ciò che è bene e ciò che è male, contribuendo a riprodurre quei rapporti che si dice di voler superare.  E proprio come un sermone ho pensato di poter interpretare la replica di Salvati, nel terzo scritto qui riportato, che non poté essere pubblicato perché la redazione di Quaderni Piacentini, a sua volta ingoiata dalla crisi che travolse la sinistra, cessò le sue pubblicazioni.

Ultima modifica: 20 Settembre 2023