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Quaderni di Formazione online

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La crisi e il bisogno di rifondazione dei rapporti sociali

In ricordo di Primo Levi e Federico Caffè

 

GIOVANNI MAZZETTI

Quaderno Nr. 10/2016

Presentazione

A trent’anni di distanza dalla morte di Primo Levi e dalla scomparsa nel nulla di Federico Caffè, dovremmo sforzarci di cogliere la rilevanza del messaggio che ci hanno trasmesso col loro gesto estremo.  Non dovremmo considerare, come hanno fatto in molti, il drammatico esito delle loro esistenze come un qualcosa di stravagante, come espressione di un disturbo, di una malattia; dovremmo piuttosto interrogarci su un possibile significato del loro addio, che si tende a rifiutare, ma il cui valore è stato tragicamente confermato dalla storia successiva.

 

Segue un articolo scritto nel gennaio 1993 su “Nuova civiltà delle macchine”, in ricordo di Primo Levi

 

La crisi e il bisogno di rifondazione dei rapporti sociali

In ricordo di Primo Levi e Federico Caffè

 

Quando nel 1987 entrambi, ad appena tre giorni l’uno dell’altro, ci hanno lasciati, la crisi sociale e culturale della nostra società, iniziata a metà anni settanta, si era andata approfondendo.  Il mondo per il quale si erano battuti, e che avevano contribuito a costruire, si stava dissolvendo, e il processo del suo disfacimento sembrava accelerare drammaticamente. Che fare?   Chi si trova per la prima volta in un frangente storico di questo tipo pensa normalmente che si possa e si debba lottare per rovesciare la dinamica sociale.  Ma chi, come Caffè e Levi, aveva attraversato una fase storica di profonda crisi della società, come fu il fascismo e il successivo conflitto mondiale, sa che questa prospettiva può essere illusoria.  La crisi non è altro che il processo di disgregazione delle istituzioni, delle consuetudini, dei linguaggi e delle prospettive che danno forma alla società, in conseguenza del quale la realtà diventa un caos inestricabile.  Quasi ogni azione intenzionalmente positiva finisce così col produrre, non conoscendo i presupposti della sua efficacia, effetti negativi.

La maggior parte degli individui non si accorge di tutto ciò.  Non che non provi un senso di frustrazione, di infelicità, o di impotenza.  Ma naturalizzando il proprio contesto culturale, pensa quasi sempre che ci sia sotto qualcuno che ha voluto quel disordine che altrimenti, nel procedere spontaneo delle cose, non sarebbero sopravvenuto.

Costoro non possono nemmeno lontanamente intuire il significato profondo di ciò che Levi e Caffè hanno fatto.  Se il mondo umano è un prodotto degli esseri umani, sono pochi – molto pochi – quelli che contribuiscono realmente a farlo venire alla luce.  E quei pochi che, come Caffè e come Levi, hanno svolto questo ruolo nel trentennio successivo alla guerra, sono allo stesso tempo le madri e i padri di quel mondo, del quale gli altri si sono limitati a fruire passivamente, come un mero dato. Per questo i primi sono depositari di una sensibilità, nei confronti del destino della loro creatura, che gli altri non hanno.

Da quel lontano aprile del 1987 le cose sono peggiorate al di là di ogni misura.  Ma per loro, che avevano attraversato il fascismo, la grande crisi e la guerra, è stato subito chiaro di trovarsi di fronte alla ripetizione di un dramma che avevano già vissuto.   Si dirà: ma ogni padre o ogni madre lottano fino all’ultimo momento per la vita della propria creatura, perché loro non l’hanno fatto?  Ma ciò è vero solo fintanto che c’è una speranza.  Cioè fintanto che si intravede una, anche se tenue, apertura che, nella dinamica degenerativa in corso, lascia intuire la possibilità di uno sbocco positivo.  Non appena questa possibilità scompare, la speranza lascia il posto al suo opposto, la disperazione.  Nessun genitore può, infatti, accettare di confrontarsi passivamente con la dissoluzione certa della propria creatura senza precipitare nella disperazione.  E, soprattutto, a differenza di quel che accade nel rapporto immediato con le persone care, il disfacimento della società è un evento interminabile, col quale ci si deve confrontare ogni giorno, rinnovando così continuamente la propria sofferenza.

Certo si può contrapporre a tutto ciò la convinzione di Lukacs che “ciò che conta è la vita e non la morte”.  Ma se si aggiunge, come faceva lui, che “si muore come si è vissuto”, l’opposizione scompare, perché la morte, nella sua specifica forma, può essere l’unico modo che rimane per esprimere coerentemente ciò che si è.  Dieci anni prima della tragica fine di Levi e di Caffè, la Heller scriveva: “fin tanto che esistono movimenti e persone che considerano la loro epoca come episodio [cioè come un passaggio insignificante, che verrà superato in bene], fin tanto che nel segno di questa fede essi tentano quotidianamente di trascendere il loro tempo nella direzione di un futuro senza alienazione, l’epoca è e resta un episodio.  Fin tanto che ci si sforza di realizzare una comunità costituita di libere personalità morali, fin tanto che si ha fiducia (!) nella capacità dei singoli individui di far proprio il patrimonio della specie, quest’epoca è e resta un episodio.” Vale a dire che la vita, seppure nella forma conflittuale che assume, non può finire.

Ma la disperazione sta nel fatto che nessuno può fare immediatamente la propria storia, e quelle stesse persone che manifestano il bisogno – ma non la capacità! - di affrontare la crisi non sono in grado di parlare, proprio in conseguenza della crisi, un linguaggio comune o almeno reciprocamente comprensibile.  Pensando che basti la volontà di essere alternativi per realizzare la comunità, si precipitano in tentativi di cooperazione che somigliano alla costruzione della Torre di Babele.  E si infastidiscono dell’incomprensione altrui, che percepiscono come una mera disconferma, come un arbitrio o come un tradimento.  Per questo il mondo va in pezzi e la prospettiva evocata dalla Heller si dissolve, ancor prima del tentativo di intraprenderla.

E’ così che il testimone passa agli altri, quelli che non considerano gli esiti negativi dello sviluppo sociale del quale soffrono come “un episodio”, bensì come lo sviluppo necessario della dinamica sociale precedente.  Ma per essere coerenti questi non possono procedere altrimenti che dalla loro impotenza.    E’ questo, a mio avviso, il significato profondo del messaggio che Levi e Caffè hanno voluto trasmetterci con il loro gesto estremo: “non illudetevi di avere una possibilità già data!  Quei cambiamenti che erano stati fecondati quando eravamo in vita, sono stati ben presto abortiti.  Ora sta a voi dimostrare di essere capaci di fecondare una nuova forma di vita, che noi non riusciamo a intravvedere.  Ma per non essere falsa, questa fecondazione deve prende spunto dalla nostra morte, perché senza di essa non si ha la misura di dove, come società, siamo finiti.   Chi, in un modo o nell’altro, nega tutto ciò non fa altro che rimuovere il negativo che noi vediamo emergere dall’evoluzione in corso”.

Al giorno d’oggi si blatera in continuazione di cambiamento.  Ma chi lo fa non sa quasi nulla delle condizioni che lo impongono e dei modi in cui sarebbe possibile realizzarlo.  Contribuisce così ad aggravare quel caos che ha spinto Caffè e Levi alla loro drammatica decisione.

Se solo si riuscisse a tener presenti le preziose parole di Facchinelli, secondo il quale molto delle iniziative per il cambiamento “precipitano nell’idealizzazione, con la continua minaccia di veder sorgere all’orizzonte, e poi dentro di sé, quel negativo che essa intende eliminare”, la condanna ad una continua ripetizione del passato potrebbe essere evitata.  Se “il passato è troppo duro, non si può abolire dal programma del presente e del futuro, perché in tal caso ritorna come un fantasma che distrugge quel programma”.  Per questo dovremmo impedire che individui come Caffè e come Levi precipitino nel mondo dei fantasmi, e far tesoro della loro sensibilità nell’intraprendere radicale la rifondazione dei rapporti di cui c’è profondo bisogno.

Segue un articolo scritto nel gennaio 1993 su “Nuova civiltà delle macchine”, in ricordo di Primo Levi.

 

 

Affinchè la tregua non si trasformi in oblio

 

Una mattina di aprile di ventinove anni fa, un sabato, poco dopo le dieci, Primo Levi è morto. Quell'uomo, dallo sguardo dolce e penetrante, è precipitato per la tromba delle scale dell'abitazione nella quale era nato e dove aveva a lungo vissuto. La notizia, circolata fulminea di bocca in bocca, ha sorpreso e colpito profondamente. Per il modo in cui la morte e avvenuta, si è subito pensato ad un suicidio. Ma proprio questa ipotesi ha reso più difficile il piegarsi alla realtà.

 

Una moltitudine d’interrogativi

Una moltitudine di interrogativi si è infatti, in conseguenza di quel gesto, rovesciata addosso a coloro che gli erano stati personalmente vicini nel¬la vita. Ma non ha certamente risparmiato anche quanti lo avevano conosciuto solo attraverso i suoi scritti e le sue interviste. Non era stato Levi sempre considerato un vero e proprio maestro di vita? Non era stato forse a causa di una sua profonda sensibilità positiva, di un suo costante appello alla speranza, nonostante la cruda realtà di cui parlava, che molte delle sue opere erano state considerate così formative da essere incluse nel catalogo delle letture per le scuole medie? Se di suicidio si era trattato, come sarebbe stato possibile comprendere il capovolgimento di valori apparentemente implicito in un simile esito? Come sarebbe stato possibile dare un senso ad una decisione così drammatica, quando gli sarebbe stato sufficiente lasciarsi andare per concludere quietamente, e nella stima generale, i propri giorni? Co¬me attribuirla a lui, che nel Lager, dove sarebbe bastato cedere un po' per incontrare spontaneamente la morte, aveva trovato invece la forza per combattere giorno dopo giorno, per negare il proprio consenso all'annullamento; come diceva lui, per «conservarsi». II critico del lontano «Los Angeles Times» si chiese infatti apertamente: “siamo stati traditi?”

Per qualche giorno la ricerca delle ragioni di un atto cosi drammatico sembra essere frenetica. Pagine e pagine di giornali e di riviste raccolgono gli sfoghi e le recriminazioni di quegli intellettuali che gli erano stati vicini. «Doveva essere veramente disperato», afferma Natalia Ginzburg. Ed aggiunge: «Il ricordo dei campi di sterminio può portare alla disperazione». Intendendo, evidentemente, che Levi ha perso la battaglia di allora a scoppio ritardato. Che gli aguzzini, che avevano mancato l'obiettivo del suo annientamento nel Lager, erano tuttavia riusciti ad inserirgli dentro un meccanismo a tempo, che lo avrebbe ucciso a distanza. «E’ stata la memoria di quell'esperienza», insiste per non essere equivocata, «vissuta con coraggio, che si è abbattuta su di lui. Improvvisamente. Uccidendolo. La sua morte dimostra come sia difficile da sopportare il ricordo delle stragi naziste». Ma queste parole non suonano convincenti. Esse esprimono semmai la difficoltà di accettare l'evento, la resistenza ad interrogarsi criticamente su di esso. Né convincono le affermazioni di Ferdinando Camon, quando sostiene con grande fermezza che «l'operazione di memorizzare, catalogare, testimoniare gli orrori e la barbarie nazista gli è costata un prezzo psichico altissimo». E che dunque si tratta «di un suicidio che va retrodatato al 1945. Non è avvenuto allora perché Primo voleva scrivere. Finita l'opera poteva uccidersi e l'ha fatto».

Fausto Coen è un po' meno unilaterale. Conserva, è vero, il legame con l'esperienza di Auschwitz, ma almeno colloca quest'ultima, a sua volta, in rapporto al contesto odierno. Non sono i ricordi che hanno ucciso in maniera diretta Levi, ma il modo in cui il mondo attuale ha trattato quei ricordi. «Era intervenuto con indignazione nella polemica tra intellettuali nella quale alcuni sostenevano che Auschwitz è stata solo la riproduzione di massacri analoghi verificatisi nella storia dei popoli e mutuata soprattutto dal suo immediato precedente il gulag staliniano. Ecco, credo che quest'ultima polemica lo abbia sconfortato». E conclude: «Come si fosse accorto che anche la sua esperienza avesse perso qualsiasi valore di testimonianza». Senonché, in tal modo il legame con il nostro mondo, quello con la vita che Levi ha vissuto nei quarant'anni (!) successivi al suo rientro, è visto attraverso una lente riduttiva. II problema del senso dell'esistenza è colto come un qualcosa che ha a che fare con il passato e con il riflesso di tale passato sul presente, ma non con il presente reale e con il suo rapporto con il futuro. Levi, senza volerlo, viene sostanzialmente trasformato in una mummia, che aveva il solo scopo di conservare magicamente se stessa come specchio di un passato, e che all'apparire di una delusione si sarebbe dissolta.

Accettiamo anche l'ipotesi che, attraverso la polemica di quei giorni sulla natura e sulle radici dei Lager, Levi si fosse «accorto» della perdita di valore della propria testimonianza in rapporto ad un ristretto gruppo di intellettuali. Per giungere a suggellare questa esperienza con il suicidio non avrebbe forse egli dovuto ritenere che al di là di quella cerchia di persone, che gli faceva sfuggire dalle mani il significato positivo della sua testimonianza, non ci fosse più comunque un mondo sensato al quale aggrapparsi?  Perché altrimenti non continuare a battersi? Perché non cercare ancora la forza in quella «negazione del consenso» che, nei giorni successivi al suo ingresso ad Auschwitz, aveva così ben imparato da Steinlaufen? Se per il resto la vita fluiva in maniera sostanzialmente accettabile, perché non continuare a sperimentare un senso positivo «nell'essere una forza passiva, uno scoglio che sopporta l'urto dell'acqua»?

La stanchezza. «Sapevo che era stanco», afferma un amico subito dopo la sua morte. «Negli ultimi tempi usciva poco, se ne stava in casa e rifiutava ogni invito». Eppure era un uomo ascoltato, che aveva avuto ed aveva un grande successo! Ferrero, il direttore letterario dell'Einaudi, ricorda gli ultimi giorni così: «Eravamo assediati da richieste di traduzioni in tutte le lingue, da università che gli volevano dare dottorati onorari. Venerdì, scherzando — ma mica poi tanto — gli ho detto: guarda che dovrai rimetterti a viaggiare e prepararti ad arrivare fino a Stoccolma perché è in arrivo il Nobel. Lui si è messo a ridere». D'altronde, come ci ricorda A. Stille, «la morte di Levi è venuta proprio all’apice della sua fama». Perché mai un uomo così richiesto non si è accontentato, come fanno altri, di godere di questa generale conferma? Perché i suoi sforzi di comunicare, che trovavano un'accoglienza così unanimemente positiva, invece di rafforzarlo, di fargli sentire una continua crescita di potere, di capacità personali, lo hanno condotto ad una progressiva disperazione.

Bobbio, davanti a questi interrogativi, sente dapprima il bisogno di tirarsi indietro. Sgomento, di fronte all'ipotesi di suicidio sostiene a caldo: Tutto mi sembra impossibile [ ... ] il suicidio è sempre inafferrabile. E’ un momento decisivo, un attimo che non si può comprendere e di cui nulla si può dire». Ora, anche questa reazione suscita a sua volta inevitabilmente interrogativi. Se si può parlare dello sterminio di milioni di persone della cui vita personale si sa poco o nulla, attuato da centinaia di migliaia di uomini dei quali si sa altrettanto poco 0 nulla, perché non si dovrebbe parlare della morte di un maestro ed amico? E’ veramente sensata la distinzione, implicita nell'appello al silenzio, che nel primo caso ci troviamo di fronte ad una questione morale, ad un evento politico, e perciò intrinsecamente pubblico, mentre nel secondo caso si tratterebbe di una questione di sofferenza, di debolezza e perciò di un fatto intrinsecamente privato? Non è forse stato proprio Levi a dimostrare praticamente che la barriera, l'opposizione tra questi due livelli della vita è una barriera artificiosa? Non è stato forse lui a farci comprendere che se si vuole afferrare un evento sociale bisogna soprattutto comprendere come esso viene vissuto dai singoli individui? E non è forse stato proprio Levi a sollecitarci a conoscere le sue sofferenze e le sue debolezze, le sue speranze e la sua forza?  Non è stato lui a volersi mostrare per l'uomo che era?

 

La rimozione

Questi problemi sembrano però non sfiorare chi rifiuta la possibilità della sensatezza del suicidio. Per questo, e forse anche perché infastidito da una caduta di rispetto, dal fatto di trovarsi di fronte ad una curiosità di mestiere, del tutto diversa da un genuino interesse, Bobbio insiste anche nei giorni successivi. «Smettiamo di rimestare», afferma perentoriamente, «colpevolizzare, cercare un motivo a tutti i costi. Lasciamolo in pace, povero Primo, e ricordiamolo per quello che è stato: un uomo che sapeva sorridere, che amava raccontare aneddoti e storielle, che guardava con la curiosità dello scienziato alle piccole e alle grandi cose della vita. E di ogni cosa voleva sapere il come e il perché».

Ma proprio se si crede veramente in quest'ultimo giudizio, si deve giungere a conclusioni opposte. Che modo sarebbe mai quello di ricordare un uomo attraverso una finzione? Perché mai ci si dovrebbe limitare a prendere una parte di lui e a nascondere l'altra? Perché accettare un uomo che sapeva cercare il «perché» di ogni cosa, affannandosi a negare il bisogno di conoscere il perché della sua morte non naturale? Se, come aveva sostenuto lo stesso Levi, «l'uomo non è eguale a se stesso», e una comprensione del suo messaggio più profondo può venire solo dalla conoscenza della totalità della quale cerca di farsi portatore, perché mutilarlo di una parte di ciò che è stato? Perché contrabbandare al suo posto un idolo, un fantasma inumanamente solo positivo, capace sì di tenere

lontane le nostre paure, ma non di farci sentire vicino l'uomo?

Se poi un'operazione del genere viene spinta troppo avanti, non esiste forse il rischio di perdere la misura? Il passo dal rifiuto della sensatezza del suicidio alla sua stessa negazione non è infatti un passo così lungo. E c'è chi sente il bisogno di compierlo. «Se Levi si fosse suicidato», afferma appena qualche giorno dopo la Rita Levi Montalcini, ci troveremmo «di fronte ad un gesto sconsiderato, per non dire balordo, una fine che degraderebbe, che toglierebbe il desiderio di leggere le sue pagine». E allora, del tutto dimentica della grave critica che lo stesso Levi aveva avanzato contro un orientamento che presume che «Nicht sein kann, was nicht sein darf», che si rifiuta cioè di riconoscere la realtà di «ciò di cui non è moralmente lecita l'esistenza», desume: «io sono certa che non è vero»!

 

Essere cauti

Forse oggi, a qualche decennio di distanza, si può e si deve essere più cauti. Si può rinunciare a rifugiarsi nell'affermazione che «se lo ha fatto, è stato un raptus, un gesto assolutamente non consapevole, non razionale». Si può provare a verificare, non solo se Levi possa aver deciso consapevolmente di suicidarsi, ma anche se il suo suicidio possa aver dietro una ragione che non gli era affatto ignota o estranea. Valutare se tra la sua vita e la sua morte non ci sia stata continuità piuttosto che rottura. Né ci sembra che questa ricerca possa accontentarsi della tautologica motivazione che diede a suo tempo Cesare Musatti: «il suo è stato un raptus dovuto ad una situazione di depressione melanconica di tipo psicotico. (…) La realtà è che Levi era malato, perché la depressione è una grave malattia». A questo livello la comprensione è solo apparente. Si presume come fatto ciò che, invece, dovrebbe essere spiegato. Perché la «malattia», se malattia è, ha essa stessa delle radici nella vita, è l'espressione di un determinato rapporto dell'individuo con l'ambiente che lo ha circondato e lo circonda. E allora non si può mancare di cogliere la differenza tra la volontà di vita mostrata nel Lager, dove la morte era padrona, e la scelta di morte manifestata ventinove anni or sono, quando la vita avrebbe potuto scorrere normalmente.

L'elemento oggettivo che chiaramente accomuna le diverse reazioni a caldo alla morte di Levi sopra richiamate è abbastanza evidente. Seppure con significative differenze, tutti dicono: «Noi, noi uomini contemporanei, non c'entriamo». Ma se è vero quello che ha sostenuto Freud in una del¬le sue annotazioni più importanti, questa negazione svolge proprio una funzione opposta rispetto a quella che intende svolgere; essa cioè riconosce, seppure in opposizione alla volontà e agli affetti, che in qualche modo noi c'entriamo. E infatti, «mediante il simbolo della negazione, il pensiero si libera dai limiti della rimozione e si arricchisce di contenuti, dei quali l'individuo non può fare a meno» per le sue prestazioni. Anche se questo «riconoscimento» interviene attraverso una sterilizzazione della sensibilità che l'evento ha messo in moto. Con la negazione, si rinuncia cioè a cogliere la portata dell'evento in tutta la sua estensione. Per poterlo accettare, lo si scinde in due momenti separati, rispettivamente destinati al centro del sapere e al centro degli affetti, e nel mentre si lascia via libera al primo, si inibisce l'operare del secondo. In tal modo si riesce ad afferrare ciò che si impone su di noi, ma solo ponendolo come realtà astratta, come fenomeno meramente esteriore, che non è in grado di incidere su di noi, sulla nostra sensibilità, che non è in grado di costringerci a mutare noi stessi, ad andare oltre ciò che siamo. L'esperienza si muove cioè in un irrisolto conflitto tra principio del piacere e principio di realtà, nel quale il peso del primo tende a prevalere sul secondo, e quest'ultimo riesce a farsi valere solo piegandosi al modo del primo.

 

II desiderio di leggere

L'ipotesi del suicidio, se accettata, «toglierebbe il desiderio di leggere le sue pagine», sostiene con decisione la Levi Montalcini. Ma in tal modo  ci svela l’esistenza di un problema, consistente in un modo di leggere Levi aprioristicamente collegato ad un modo di vedere il mondo, e che sarebbe in totale contrasto con la possibilità del suicidio. Un approccio che intende esprimere con forza un appassionato prevalere dell'amore per la vita, come unica dimensione sensata dell'esistenza umana.  «Negli Stati Uniti», conferma in merito A. Stille, nel suo contributo alle Giornate Internazionali di studio su Levi, «abbiamo letto Levi in una maniera troppo hollywoodiana, come l'autore che ha dato un lieto fine all’olocausto».  Ma si tratta di un modo di accostarsi agli scritti di Levi che è veramente coerente con il loro contenuto? Un simile approccio non poggia forse su una irriducibile opposizione tra vita e morte, tra positivo e negativo, che era del tutto estranea all'esperienza di Levi? E se si cerca di far realmente valere questa opposizione, non si crea una situazione che può essere risolta solo con l’annullamento di uno dei due poli?

Questo insieme di problemi era indubbiamente ben presente nelle riflessioni di Levi. In Verso Occidente, ad esempio, egli annota: «Fra chi possiede l'amore di vita e chi lo ha smarrito non esiste un linguaggio comune. Lo stesso evento viene descritto dai due in due modi che non hanno niente in comune: l'uno ne ricava gioia e l’altro tormento, ed ognuno ne trae la conferma per la propria visione del mondo». Ma egli significativamente conclude, attraverso il personaggio che svolge le riflessioni sopra riportate, che (in generale, chi possiede l'amore per la vita) «ha torto, e lo sa, ma trova più gradevole tenere gli occhi chiusi».

Ma allora, ci si chiederà, da dove era venuta a Levi la forza per resistere nell'inferno del Lager? Quali erano le radici del suo particolare amore della vita, che pure traspare con chiarezza innegabile nelle sue opere? La sua risposta a questo interrogativo ci è nota. Quando, in Se questo e un uomo, ringrazia Lorenzo per ciò che ha fatto per lui, aggiunge queste parole: «Io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così facile e piano di essere buono, che esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa o qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all'odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto conservarsi». E quando immagina o sogna que¬sto mondo, il godimento più intenso che prova — anche se poi la continuazione del sogno glielo cancellerà — è quello di «avere tante cose da raccontare» e di riuscire a farlo. La sua forza stava quindi nella sua convinzione che ci sarebbero stati altri individui della sua stessa specie, esseri umani capaci di comprendere le sue sofferenze, il suo senso della situazione, e di condividere il suo giudizio sul totale annullamento che stava subendo. La sua forza consisteva, appunto, nel non sentirsi so¬lo in una situazione di estrema disperazione oggettiva. Nella drammatica situazione di svuotamento nella quale alcuni uomini lo avevano fatto piombare, egli tuttavia percepiva che almeno potevano esserci altri uomini in grado di condividere il suo patire. E Lorenzo costituiva la prova tangibile, pratica, di questa possibilità già all'interno del La¬ger. Certamente la durezza della situazione lo spingeva ad esaltare il valore di questo sentimento. Criticamente diceva di sé: «Non si sogna per anni, per decenni, un mondo migliore, senza raffigurarselo perfetto». Ma lo scarto tra la perfezione immaginata e la realtà era a sua volta più immaginario che reale. Esso costituiva piuttosto la misura della privazione subita, del male ricevuto, che faceva apparire il bene agognato — la comunità con altri che potevano volere una vita positiva per lui — come un bene enorme.

Ma se all'inizio del nuovo cammino, dopo il Lager, Levi credeva ottimisticamente che la domanda — se questo e un uomo — riferita a quell'essere martoriato ed annientato che egli era stato, potesse essere avanzata agli altri in maniera piana ed immediata, perché questi avrebbero subito compreso, l’ottimismo recede già poco tempo dopo la liberazione. In La tregua, il rientro a Torino è descritto in poco più di una pagina, dove si legge: «[...] E non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento: E’ un sogno entro un altro sogno. [...] Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso [...] eppure provo un'angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente [...] tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone. [...] Tutto è ora volto in caos: sono al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: so¬no di nuovo in Lager, e nulla era vero all'infuori del Lager. II resto era breve vacanza o inganno dei sensi, sogno. [...] Ora questo sogno interno, il sogno di pace è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. E’ il comando dell'alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi!, "Wstawac!"».

Questa comparsa di una possibile labilità dei confini tra spazi prima percepiti come opposti, fa riemergere l'interrogativo di allora, ma con ben altro respiro. «Fa parte dei miei momenti liberi», sosteneva più tardi, «continuare ad insistere sulla domanda di allora: se questo e un uomo. Insistere non riferendola soltanto alla guerra al nazismo, ma an¬che al mondo d'oggi, al terrorista, al cattivo politi¬co, allo sfruttatore. Insomma, a tutti quei casi in cui viene spontaneo chiedersi se l'umanità sia conservata o perduta, sia recuperabile o no». Ed è un uomo ovviamente diverso quello che da queste riflessioni giunge a sostenere: «Il lieto fine mio personale, il fatto di essere riuscito a sopravvivere al campo di concentramento, mi ha reso stupidamente ottimista. Oggi non sono più ottimista. A quel tempo lo ero. A quel tempo ho commesso un illogico trasferimento del mio personale lieto fine a tutte le tragedie umane».

Con queste parole Levi richiama la nostra attenzione su un pericolo. Egli ci dice che il desiderio di leggere le sue pagine può essere il veicolo di un bisogno che, seppur senza volerlo, stravolge il significato della sua opera e dello stesso rapporto con lui. Ciò significa che si può essere disposti a seguire Levi nella sua tragedia — che lo accomuna a milioni di altri individui scomparsi nei Lager — per negarla, cioè solo per aggrapparsi a quel «lieto fine» che la distingue da quella degli altri. Si può, in altri termini, accettare di porsi l'interrogativo — se questo e un uomo — solo per sostenere che l'uomo c'è sempre e necessariamente in forma positiva, qualunque sia lo stravolgimento che la vita impone sulla sua esistenza.

Ma se l’ottimismo esasperato del primo Levi può in qualche limitata misura giustificare questo esito, l’argomentare più ponderato, ma non per questo meno ricco e sentito, del Levi successivo, lo rende inaccettabile. Già l'incontro con Lorenzo a Fossano, subito dopo il rientro, è un realistico incontro con un uomo stanco, il cui «margine di amore per la vita si era assottigliato, ed era quasi scomparso». Ed è un incontro che lascia un segno negativo, non meno importante di quello positivo impresso ad Auschwitz.

Tutta la problematica di Levi diventa, in conseguenza, enormemente più complessa. Non si limita a cercare di cogliere il positivo che sopravvive a stento nel mare del negativo, bensì è diretta a svelare il negativo che si nasconde dietro al positivo e che può far più male del negativo esplicito. II suo punto di vista diventa ben presto quello di valutare se «come Rumkowski [l'autocrate ebreo che per conto dei nazisti "impera" sul ghetto di Lodz] anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal denaro da dimenticare la nostra fragilità essenziale».

Perché per lui la conservazione dell'umanità dell'uomo è interamente incentrata sulla percezione di questa fragilità in forme non oppositive, dato che il «dolore, anche se forse non l'unico dato dei sensi di cui sia lecito dubitare, è certo il meno dubbio».

 

Afasia e disperazione

Tra la rinuncia all'ottimismo, il confronto aperto con la cruda realtà, e la disperazione c'è, però, un abisso. Così come c'è un'incolmabile differenza tra l'impegnarsi a parlare in maniera più dubitativa, meno ottimistica, e il diventare afasici.

«Non riesco più a scrivere», diceva poco tempo prima di morire. Ma la voglia di parlare e di scrivere è qualcosa che esiste solo se si immagina un ascoltatore o un lettore capace di incontrarci realmente. Se ci si accorge che il tanto parlare e il tanto scrivere non porta ad essere compresi, che l'essere dubbiosi non è condizione sufficiente per far afferrare agli altri i nostri dubbi, perché il lettore legge in noi solo ciò che gli piace, che a nostro avviso non ha alcuna relazione con il nocciolo del nostro dire, forse la lingua si rinsecchisce e l'inchiostro si asciuga.

Ora è proprio questo progressivo prosciugamento della volontà di parlare - ché era un parlare a noi - che dobbiamo spiegarci. Dobbiamo chiederci se la disperazione di Levi – che era l'impossibilita di “sperare” in noi - non fosse dovuta al fatto che l'operazione che, forse inconsapevolmente, sta andando in porto dopo la sua morte - quella di una completa rimozione delle implicazioni negative, critiche, di ciò che egli ha fatto - non fosse un qualcosa già in atto nei confronti del suo stesso modo di comunicare, quando egli era ancora in vita. Dobbiamo verificare se nella vita di tutti i giorni, di là dalle persone care, Levi abbia finito col non incontrare un altro Lorenzo che, dopo la tragica fine del primo, fosse capace di fargli credere praticamente, in un mondo rovesciato rispetto al Lager, per il quale valesse ancora la pena di conservarsi.

In altri termini, dobbiamo verificare se i drammatici sogni sul ritorno, che ci ha descritti in Se questo è un uomo, non si siano praticamente avverati.  Dobbiamo vedere se «quel godimento intenso, fisico, inesprimibile dell'essere nella propria casa, fra persone amiche e connesso con l'aver tante cose da raccontare», non sia stato guastato «dall'accorgersi che i suoi ascoltatori non lo seguivano, e che anzi, erano del tutto indifferenti, parlavano confusamente d'altro fra di loro, come se lui non ci fosse». Dobbiamo comprendere se, nel momento in cui Levi si lamentava di «quanto fosse ridicolo che egli fosse stato trasformato in una Mummia sapiente» e di «vivere una vita nevrotica nella quale tra la scrittura di un libro e quella di altro» doveva attraversare «esperienze molto fastidiose», in «una vita mondana che a lui non piaceva», non si riferisse proprio ad un contesto nel quale gli veniva concretamente preclusa la possibilità di esserci, nonostante paradossalmente si agisse come se egli fosse al centro dell'evento.

 

«Noi preferiamo la morte all'illusione»

Nell'edizione per le scuole medie de La tregua, commentata dallo stesso Levi, alla descrizione del sogno del comando straniero, che conclude il libro, segue una breve nota. «Nel sogno», scrive Levi, «il Lager si dilata ad un significato universale, è diventato il simbolo della condizione umana stessa ("nulla era vero all'infuori del Lager"), e si identifica con la morte a cui nessuno si sottrae. Esistono remissioni, "tregue", come nella vita del campo, l'inquieto riposo notturno; e la stessa vita umana è una tregua, una proroga; ma sono intervalli brevi, e presto interrotti dal "comando dell'alba", temuto ma non inatteso, dalla voce straniera ("wstawac" significa "alzarsi", in polacco) che pure tutti intendono e obbediscono. Questa voce comanda, anzi invita, alla morte, ed è sommessa perché la morte è iscritta nella vita, è implicita nel destino umano, inevitabile, irresistibile; allo stesso modo nessuno avrebbe potuto pensare di opporsi al comando del risveglio nelle gelide albe di Auschwitz».

Ma che cosa vuol dire che la morte è iscritta nella vita? Vuol forse solo dire che chi vive sa genericamente di dover poi morire? O non vuol forse dire che la morte, nel momento in cui essa è nota è già parte della vita? Che quello che noi definiamo come vita, senza le sue strette interconnessioni con la morte non potrebbe materialmente esistere? Che si può cioè anche «volere» la morte come un momento che dà significato alla propria esistenza?

II corpo umano è mortale. Ma l'uomo non è so¬lo un corpo, è anche un individuo, un soggetto, che si adopera a produrre la propria esistenza. Va¬le a dire che l'uomo è un essere che ha una storia, e solo in quanto ha una storia è un essere umano. Se è vero che la morte è iscritta nella vita, allora la storia di ciascun uomo è fatta anche dal modo della sua morte. E ciò a prescindere dal fatto che egli lo sappia o lo voglia. Di questo Levi era profondamente consapevole. Quando nel Lager, di fronte alla morte immediatamente incombente, rifiuta di pregare, spiega con grande semplicità che questo suo rifiuto è dovuto alla sua convinzione che «non si cambiano le regole del gioco alla fi¬ne della partita, ne quando si sta perdendo». La morte deve cioè essere, quanto più è possibile, una continuazione della vita, la sua conclusione.

Di fronte alle reazioni causate dalla morte di Levi dobbiamo dunque porci la seguente domanda: è veramente il suicidio un atto così poco dignitoso da dover essere rimosso? O non è forse più giusto partire proprio da esso per rileggere il senso di una vita? In termini ancora più espliciti: non si può forse voler morire per poter affermare una verità, una coerenza, che si ritiene di non poter affermare altrimenti?

E’ evidente che questo giudizio sulla morte non è altro che un giudizio sulla vita, sulla forma data della vita umana che si sta vivendo. Se la vita individuale finisce con l'assumere la forma della tragedia, e se la tragedia si risolve in morte è forse perché in tal modo si vuol sostenere che la vita, così com'è, è una vita senza futuro. Di una presenza della morte nella vita, Levi ci aveva chiaramente parlato in Verso occidente. Lì aveva accennato a «quel buco. Quel vuoto. Quel sentirsi [...] inutili, con tutto inutile intorno, annegati in un mare di inutilità. Soli anche in mezzo ad una folla: murati vivi in mezzo a tutti murati vivi». Ma questa presenza, di per sé, non è necessariamente distruttiva. Al contrario, può essere salutare, perché contribuisce a porre il problema della forma della vita, che è il problema dell'umanità dell'uomo, e che se viene ignorato fa decadere l'uomo al rango degli animali.

Essa è, tuttavia, cosa ben diversa da un male più profondo, più radicale, più definitivo, il quale spinge a sentire l'intero universo, seppure studiato con diligenza e con amore, «come un'immensa macchina inutile, un mulino che macina in eterno il nulla a fine di nulla; non muto, anzi eloquente, ma cieco e sordo e chiuso al dolore del se¬me umano».

La morte può allora essere portatrice di verità, perché «apre» la vita al suo dolore. In questi frangenti si può voler dar forma alla tragedia con la morte, perché alla tragedia che contraddistingue la vita — non tanto a quella passata, quanto a quella presente! — non viene riconosciuta alcuna necessità di esistenza. Se è vero ciò che ha sostenuto Calvino nelle Lezioni americane, cioè che «un'epidemia pestilenziale ha colpito l'umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l'uso della parola»; che è sopravvenuta «una peste del linguaggio, che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l'espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze», è molto probabile che per Levi tutto ciò abbia rappresentato una vera e propria realizzazione dell'incubo. La forza che lo aveva tenuto in vita nel Lager — quella del bisogno di un reciproco rispecchiamento in un mondo sensatamente condiviso — si sarebbe mostrata come un segno di mera impotenza, come una fonte di pura infelicità.

D'altra parte, se e vero, come sottolinea sempre Calvino, che «l'inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto, bensì nel mondo»; che «la peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, e rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio ne fine», cioè che la vita ha finito con il perdere la forma, e evidente che, proprio come nel sogno di Levi, «tutto è ora volto in caos».

Levi avrebbe potuto nascondere a se stesso questa realtà. Avrebbe potuto godere, come fanno in molti, dell’effimero piacere derivante dal generale consenso, giungendo a credere che quel consenso costituisse la sola prova necessaria del valore uni-versale del suo essere particolare. Ma la forza che lo ha tenuto in vita nel Lager — vista non solo dal suo lato, ma anche da quello di Lorenzo — non era tanto il principio della propria autoconferma immediata come fine a se stessa, quanto piuttosto la conservazione di sé come momento di una lotta tesa al disvelamento e all’imbrigliamento delle forze distruttive della specie. Questa stessa forza può aver agito su di lui nel momento in cui si è sentito costretto ad una scelta estrema ed opposta. La necessità di svelare il modo in cui la pulsione di morte vince talvolta sulla pulsione di vita, nascondendosi all’interno di quest'ultima, può essere stato ciò che lo ha spinto a sperimentare un senso anche nel lasciarci per sempre nel modo drammatico in cui ha fatto.

E’ evidente che questa ipotesi, se accettata come ipotesi sensata, non lascia «scorrere» le nostre co¬se senza intoppi, bensì ci rimanda un grave problema. Ci obbliga a verificare se Levi non sia stato schiantato dalla percezione di essere finito in un mondo specularmente opposto a quello del Lager e proprio per questo altrettanto allucinante. Se in quel mare di negatività la vita gli era apparsa informe per l’impossibilita di una qualsiasi pratica umanamente positiva — da qui il valore di Lorenzo che riesce, eccezionalmente, a comportarsi positivamente — non gli è, forse, la vita attuale potuta sembrare informe a causa della pretesa di accettare solo ciò che è positivo, determinando così l'impossibilita della negatività e del dolore? La morte può allora essergli magicamente apparsa come il solo mezzo per dare una forma all’infinitamente informe.

Un gesto del genere pesa, ovviamente, ben più di miliardi di parole. In esso sono racchiusi tutti i racconti che Levi non è stato in grado di scrivere e molto di più. Vedere quanto direttamente tutto ciò ci riguardi, e fino a che punto il senso di quanto Levi ha scritto contenesse già la necessita di questo sviluppo, è il destino della nostra epoca. Se si chiudono gli occhi di fronte a questo possibile svolgimento, se ci si fa passare la voglia di leggere quegli scritti attraverso un evento che ne trasforma radicalmente il senso, se si procede, come si sta facendo, a rimuovere il drammatico esito della vi¬ta di Primo Levi, per celebrare solo il suo contributo positivo, non si fa altro che esprimere una definitiva condanna su sé stessi. Si dimostra infatti, in tal modo, di non essere poi cosi diversi da quegli struzzi che — per la loro ingenua spinta a nascondere la testa di fronte al pericolo — sono stati dagli uomini spesso sbeffeggiati.

Ed è qui che debbono tornarci in mente le gravi considerazioni, riportate all'inizio de La tregua, che Levi svolse nel momento della sua liberazione dal Lager. Anche con la negazione, con la stanchezza, con l’oblio del male, con la rinuncia a comprendere si contribuisce ad alimentare «l'inesauribile fonte di male».

Ultima modifica: 20 Settembre 2023