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Quaderni di Formazione online

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Prima che giunga il termine

Riflessioni odierne sulla difficoltà di spingersi

 

Oltre il pieno Impiego

Pur disponendo di una teoria della crisi e della nuova base della ricchezza

 

Introduzione

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Presentazione

 

In questo quaderno e nei prossimi tenteremo un’operazione complessa.  Riprenderemo un testo del 1984, nel quale eravamo finalmente giunti a formulare per la prima volta quella che ci era sembrata una teoria coerente e articolata della crisi che ci aveva investiti alla fine degli anni settanta. Intersecheremo poi quel testo con una serie di riflessioni critiche sulla situazione che si è instaurata nei quarant’anni successivi.  Il senso di quest’operazione è presto detto.  Se sono ormai decenni che cerchiamo di rendere la teoria della crisi acquisita all’epoca sempre più chiara e consolidata nelle sue fondamenta, se abbiamo cercato di socializzarla con incontri con alti dirigenti sindacali e di partito, se ne abbiamo divulgato i contenuti con scritti elementari su giornali e riviste e con riflessioni complesse su numerosi libri; se abbiamo cercato di diffonderla partecipando ad innumerevoli incontri e convegni, non possiamo rimuovere il fallimento del suo non far presa sulla società.

Si è frapposto dunque un ostacolo, del quale all’epoca non abbiamo saputo tener conto, un impedimento che sbarrava la strada che pensavamo si dovesse imboccare. Infatti, negli stessi anni nei quali stavamo faticosamente individuando il percorso che, attraverso il riconoscimento del sopravvenire della difficoltà di riprodurre il lavoro, con l’emergere della necessità di redistribuirlo tra tutti, avrebbe eventualmente permesso di confrontarsi con la crisi, la società imboccava una direzione opposta. Ha proceduto, infatti, come se il lavoro fosse l’unica forma nella quale gli individui potevano estrinsecare la loro capacità produttiva e il denaro che da essa scaturiva come l’unica forma della ricchezza umana.  Ma che quel lavoro non fosse riproducibile sulla scala necessaria a garantire un fisiologico svolgimento dell’attività produttiva è stato dimostrato dal fallimento dei numerosi tentativi di chiamarlo in vita.

Qui cercheremo di incrociare un’autocritica del modo in cui abbiamo via via formulato il problema con una critica dell’evoluzione concretamente intervenuta nella società.  Siamo stati sollecitati a procedere in questa direzione dalla dissoluzione della società, che sta ormai raggiungendo livelli che potrebbero rivelarsi non più reversibili.  Per questo abbiamo pensato di dover raggruppare queste riflessioni sono il titolo Prima che giunga il termine.  Speriamo in tal modo di individuare gli spazi residui di un cambiamento possibile, nonostante la dinamica evolutiva in corso deponga ormai contro la possibilità di questo cambiamento.

Glosse (auto)critiche

 

L’introduzione al testo del 1984, che abbiamo riprodotto sopra, per quanto nient’affatto tesa a negare i problemi, poggiava, evidentemente, sulla convinzione che gli interlocutori fossero in grado di recepire l’appello che veicolava.  Ma il fatto che nei quarant’anni successivi la problematica relativa alla necessità di spingersi oltre la politica keynesiana del pieno impiego, non abbia trovato ascolto, non entrando nemmeno marginalmente nel dibattito politico e culturale europeo, testimonia che quella convinzione era sbagliata.

 

Quale ostacolo veniva ignorato con quella formulazione?  Il fatto che la società fosse molto più arretrata di quanto le conquiste attuate nella fase di ascesa del Welfare keynesiano spingevano a credere. Quelle conquiste non avevano cioè realmente inciso sulla struttura dell’individualità sociale.  Nel corso degli anni sessanta e settanta era sembrato infatti che gli individui avessero finalmente elaborato un rapporto coerente con l’organismo sociale di cui facevano parte.  Con il miglioramento delle condizioni di vita intervenuto attraverso l’imporsi del Welfare (pieno impiego, alimentazione adeguata, abitazioni decorose, istruzione di base, assistenza sanitaria, dissoluzione dei precedenti rapporti gerarchici favoriti dalla miseria, ecc.) l’individuo aveva sperimentato una liberazione dalle forze oppressive che fino a quel momento avevano gravato sulla vita collettiva.  Egli era così giunto a credere di aver finalmente sviluppato un rapporto coerente con l’insieme della società.  Ma questa credenza era frutto di un’ingenuità.  Essa implicava infatti che, una volta “liberato” dai vincoli anacronistici del passato, l’essere sociale dell’individuo potesse dispiegarsi non contraddittoriamente all’emergere dei nuovi problemi riproduttivi.  Presupponeva così una plasmabilità dell’individualità che consentisse di concepire liberamente nuove forme di vita.

 

Una plasmabilità che nella realtà non si è instaurata.

 

Quella credenza ha alimentato l’illusione che il cambiamento necessario potesse prender corpo con un atto di volontà collettiva. O che, comunque potesse essere facilmente imposto alla minoranza che si affidava ancora interamente alla cultura in via di dissoluzione. In realtà però tutte le conquiste passate sono state il frutto di sofferenze e di conflitti, sfociati in “parti” difficoltosi, appunto perché la maggior parte degli individui – quelli che gli inglesi chiamano i “common people” - non aveva e non ha alcuna idea della società nella quale è immersa.  Ciò comporta una grandissima difficoltà a percepire coerentemente, o anche solo a intuire, l’evoluzione in corso.  Per questo il modo di vita appena conquistato ha teso ogni volta a fissarsi come una forma della vita collettiva che finiva con l’essere sperimentata come insuperabile.

È probabile che il testo, che tendeva ad aggirare questa rigidità, invece di affrontarla, ha finito col restare inascoltato per il fatto di aver eluso questo problema sul problema.  L’ipotesi che il lavoro – salariato e autonomo – potesse incontrare difficoltà ad essere riprodotto, lungi dal trasformarsi in un compito che incombeva sul sapere individuale e collettivo, ha finito con l’apparire come una sorta di “mistero”, collocato in uno spazio mistico al quale il singolo non ha alcun bisogno di accedere, e che deve restare appannaggio di una ristretta cerchia di intellettuali e dei chierici che gestiscono la cosa pubblica.

 

L’esistenza di questo problema nell’ormai lunga vita dell’Associazione per la Redistribuzione del Lavoro, non fu ignorata e trovò un primo tentativo di elaborazione con la pubblicazione nel 1993 dell’Uomo sottosopra (Manifestolibri).  Ma evidentemente il momento favorevole era ormai trascorso.  Forse anche il modo di svolgere il problema in quel testo, facendo riferimento ai travagli di due intellettuali come Claudio Napoleoni e Lucio Colletti di fronte alla crisi, non favorì una riflessione tra i pochi critici sopravvissuti al crollo del Muro di Berlino.  A quell’evento avevamo cercato di dare una risposta problematica con il nostro Dalla crisi del comunismo all’agire comunitario (Editori Riuniti) dell’anno precedente. Ma il regresso dei progressisti su posizioni meramente difensive si dimostrò inarrestabile, con uno svuotamento di ogni prospettiva alternativa.

Non c’è bisogno di evocare il Marx del Diciotto Brumaio per riconoscere che il nostro tentativo interveniva “in contraddizione stranissima con tutto ciò che allora si poteva mettere in opera immediatamente, se si teneva conto dei materiali esistenti, del grado di sviluppo intellettuale della massa, nonché delle circostanze e dei rapporti dati”.

Ma quarant’anni dopo siamo ancora a quel punto?

 

O possiamo sperare che la lunga disfatta abbiamo finalmente creato un’ambiente culturale nel quale “i fronzoli tradizionali, le illusioni, le idee e i progetti inconsistenti” vengano accantonati, e si possa affrontare seriamente il problema della difficoltà di riprodurre il lavoro, sbarazzandosi così di quei fantasmi dei rapporti borghesi che sono anacronisticamente sopravvissuti al radicale mutamento delle forze produttive sociali?

Ultima modifica: 20 Settembre 2023