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Egregio Prof. Andrea Zhok,

 

ho trovato la sua “provocazione” sul PIL, pubblicata sull’Espresso del 22 ottobre, estremamente lucida e coerente.  Provo a fare qualche breve riflessione aggiuntiva sul tema che spero possa interessarla.

 

Perché qualcuno - ma certamente non Kutnes, né Keynes che lo consideravano solo come una misura del prodotto monetario - ha accostato il PIL al benessere?  Per la semplice ragione che fino a ieri la misura della soddisfazione dei bisogni della società era più o meno grossolanamente fornita dalla quantità di lavoro erogata nel periodo considerato. La cosa fu accentuata dal fatto che, a partire dal dopoguerra e fino agli anni ottanta, la maggior parte dell’occupazione aggiuntiva creata era occupazione pubblica (in Inghilterra si crearono cinque milioni di posti di lavoro nel settore pubblico) e quel tipo di ricchezza veniva descritto come prodotto del Welfare State, cioè di uno stato che agiva non più solo in modo assistenziale, ma soprattutto per assicurare “il ben procedere” della società.  Il linguaggio è sempre un po’ lasco, e ben presto misura delle variazioni del PIL e misura del benessere vennero considerati omologhi. C’era, ripeto, una qualche coerenza nella cosa, perché il pieno impiego è il primo presupposto del benessere, visto che in una società mercantile è l’unico segno della partecipazione dei cittadini al processo riproduttivo, e assumendo il PIL come misura dell’arricchimento della società si procedeva a far fronte alla disoccupazione di massa che aveva ripetutamente afflitto la società capitalistica. Da questo punto di vista, non concordo pienamente, sul piano storico, con la sua critica, fatta “senza troppa malizia”, che riduce in generale la misurazione del PIL ad un approccio strumentale da parte delle classi egemoni.

 

Verso la fine degli anni sessanta, come lei ricorda, ci si rese però conto che stavano presentandosi una moltitudine di problemi riproduttivi nei confronti dei quali il PIL restava muto.  Come sempre succede, però, invece di cogliere la sfida implicita in questo fenomeno si è pensato di poter procedere mettendoci delle toppe, cioè con quell’ ”ammuina gattopardesca” che lei lamenta.  Per quale ragione il PIL non è più una misura coerente della ricchezza prodotta?  Perché quella ricchezza non può più essere puramente e semplicemente il prodotto del lavoro.  Lei accenna vagamente a questa componente, ma si limita a riferirla al passato, al passaggio da una produzione comunitaria ad una mercantile. Personalmente credo che essa vada invece riferita anche al futuro, perché le nuove attività produttive che possono garantire un ulteriore sviluppo della società, possono essere svolte solo con crescente difficoltà e in modo contraddittorio come lavoro.

 

Quando lei si chiede “come sia possibile che continuiamo a pendere dalle labbra del prossimo bollettino sul PIL e a determinare politiche pubbliche su questa base”, è, appunto, perché la società non sa far altro che costringersi, da almeno trent’anni, all’interno di una realtà che Keynes, nel suo Economic possibilities for our grandchildren aveva considerato in via di dissoluzione.

   Il prendere atto di ciò comporta però l’affacciarsi su un mondo che è tutto da costruire, e che non può essere costruito senza un rivoluzionamento dei rapporti sociali e un radicale cambiamento nelle forme prevalenti dell’individualità. Insomma, se è vero che il PIL ha esaurito la sua funzione storica positiva, come misura dell’arricchimento della società, è perché la società che attribuisce al suo prodotto quella misura, ha a sua volta esaurito il suo ruolo storico.

 

Non so se l’articolo per l’Espresso sia stato solo uno sfogo o se, invece, sia l’espressione di una riflessione più approfondita che lei porta avanti organicamente nel tentativo di demistificare “la recita che la classe politica” (ma io aggiungerei le classi dominanti in generale) portano avanti sul palcoscenico della vita.  In questo secondo caso mi farebbe piacere di scambiare qualche considerazione con lei.

 

     Molto cordialmente

 

 

Roma 23 ottobre 2017

 

 

Giovanni Mazzetti

Direttore Centro Studi e Iniziative per la Redistribuzione del lavoro

già docente di Politiche dello sviluppo Università della Calabria

 

 

 

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