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Quel pane da spartire

Teoria generale della necessità di redistribuire il lavoro

 

Giovanni Mazzetti

Bollati Boringhieri, 1997

 

Capitolo 10 - Il reddito di cittadinanza

Capitolo 13 - Quale libertà nella redistribuzione del lavoro?

Dalla quarta di copertina

Il libro si propone di dimostrare che, nell'attuale fase storica, non solo è possibile ridurre il tempo individuale di lavoro a parità di salario, ma addirittura necessario. Che non esiste cioè altra via d'uscita positiva dalla crisi che stiamo attraversando.

La dimostrazione è condotta seguendo un percorso che richiede quattro passaggi fondamentali.

Il primo, una riflessione critica sulla natura della disoccupazione e sul modo in cui il senso comune normalmente la fraintende. Il secondo, un'approfondita analisi dei risvolti sociali dei continui aumenti della produttività, e del modo in cui essi hanno dapprima mediato un portentoso sviluppo attraverso l'imporsi dei rapporti capitalistici. Il terzo, una ricostruzione storico-teorica di come lo Stato Sociale, dopo la Grande Crisi, sia subentrato al capitale nel mediare l'ulteriore sviluppo sociale e l'arricchimento della società. Il quarto, una spiegazione del perchè l'ulteriore sviluppo delle forze produttive sia sfociato di nuovo nella disoccupazione di massa, e richieda un'appropriazione individuale dei frutti derivanti dagli aumenti di produttività.

L'analisi delle diverse proposte che attualmente si contrappongono alle strategie conservatrici - il reddito garantito o di cittadinanza, i lavori socialmente utili o concreti, la riduzione del tempo di lavoro a parità di salario - porta l'autore a concludere che l'ultima proposta racchiude in sé coerentemente e unitariamente anche quelle articolazioni del cambiamento richiesto che, in forma unilaterale, sono contenute nelle altre due.

 

 

Dalla premessa

Raccolgo qui alcuni risultati degli ultimi tre anni di lavoro e di più di trent'anni di ricerche. L'obiettivo è quello di dimostrare che, nell'attuale fase storica, non solo è possibile ridurre il tempo individuale di lavoro a parità di salario, ma è addirittura necessario. Che non esiste cioè altra via d'uscita positiva dalla crisi che stiamo attraversando. Si tratta di una riduzione che si deve accompagnare a una redistribuzione tra tutti del lavoro di cui c'è ancora bisogno, e che deve essere attuata non in questa o in quell'area economico-sociale, in questo o quel paese, ma ovunque.

Per comprendere la sensatezza di questa prospettiva bisogna fare un piccolo passo indietro nella storia. Se si consultano libri, riviste e giornali dell'inizio degli anni sessanta, è possibile trovare molti documenti politici, e molti studi di economisti e sociologi, che cercavano di anticipare quella che, con ogni probabilità, sarebbe stata la situazione di questa fine secolo. Tutti quei lavori giungevano alla conclusione che 1) nei paesi avanzati avremmo finalmente goduto di un'abbondanza materiale ben diversa dalla miseria che aveva caratterizzato le epoche passate, e in molti paesi sottosviluppati si sarebbe decisamente imboccata la via dello sviluppo; 2) per ottenere quella maggiore ricchezza avremmo dovuto lavorare meno, ma molto meno di quanto stavamo facendo. E per un po' di tempo, seppure con qualche confusione, questi obiettivi fondamentali sono stati tenuti fermi come punti di riferimento della prassi collettiva. In Italia, ad esempio, alla fine degli anni cinquanta, si lavorava normalmente 52 ore la settimana, e si godeva al massimo, di quindici giorni di ferie all'anno. La vita materiale era ancora decisamente miserevole ed intessuta di continui sacrifici. Quasi un italiano su tre era analfabeta. La maggior parte delle abitazioni non aveva bagno, né telefono, né ascensore. Molte erano prive di elettricità e di acqua corrente, per non parlare del riscaldamento. I consumi in genere erano poverissimi: libri, grammofoni, registratori, televisori, frigoriferi e automobili erano beni di lusso, e il fatto che qualche famiglia non agiata possedesse un'auto o un televisore era visto da molti come un fattore di scandalo. L'assistenza sanitaria era decisamente carente e nient'affatto generalizzata.

Attraverso il cosiddetto miracolo economico e lo sviluppo successivo, siamo riusciti a cambiare il nostro mondo nella direzione che era stata anticipata. La settimana contrattuale, senza il bisogno di un qualsiasi accordo formale sul piano internazionale, è stata via via ridotta fino alle 40 ore settimanali. Le ferie sono cresciute fino a raggiungere il mese. Non solo abbiamo più che raddoppiato il patrimonio abitativo, ma lo abbiamo mutato qualitativamente, al punto da finire col considerare molte delle precedenti abitazioni come ripostigli. Abbiamo inoltre trasformato le nostre condizioni di vita in maniera così profonda da allungare la vita media di un quinto della sua durata. Insomma, pur lavorando di meno, ci siamo arricchiti straordinariamente.

Questa radicale trasformazione della nostra esistenza, lungi dal produrre il mondo idilliaco che era stato immaginato, ha però determinato l'emergere di nuovi difficili problemi. Ciò non è strano. La vita umana ha infatti preso la forma in un mondo determinato dalla penuria, e ha comportato lo sviluppo di capacità che corrispondevano al bisogno prioritario di garantire la sopravvivenza in un contesto contraddistinto da una grave carenza di risorse. Dunque queste facoltà non implicavano che gli esseri umani fossero necessariamente in grado di agire coerentemente anche con la situazione di relativa abbondanza che si stava instaurando. La ricchezza preesistente era infatti una ricchezza antagonistica, che riguardava piccole minoranze egemoni, e prendeva corpo in opposizione all'assoluta povertà di massa.

E' così accaduto che gli individui, in media incomparabilmente ricchi rispetto ai loro nonni, hanno visto sopravvenire su di loro un insieme di problemi e di conflitti inattesi, determinati dal processo di arricchimento. E incapaci di piegarsi al principio di realtà, e di confrontarsi con i compiti nuovi che l'abbondanza comportava, si sono rifugiati in massa nelle dinamiche antagonistiche proprie del periodo precedente. Il male del quale la società soffriva come manifestazione del suo stesso processo di crescita, ha finito così con l'essere considerato non un problema che sollecitava un nuovo sviluppo, ma un evento arbitrario. I conservatori, in particolare, hanno cominciato ad imputare la colpa delle difficoltà al nostro stesso desiderio di conquistare un'esistenza più umana, a quella che, nel loro linguaggio, appariva la pretesa come una pretesa di vivere al di sopra delle possibilità. Ma da parte di coloro che si battevano per il cambiamento, si è spesso commesso un errore speculare, credendo che il mancato sviluppo positivo fosse da attribuire solo alle resistenze dei conservatori, al loro ostacolare l'instaurarsi di una forma di vita per la quale si riteneva che la società fosse già pienamente matura.

Questo contrasto, esploso tra l'inizio e la fine degli anni sessanta, mi è sembrato ben presto completamente improduttivo. Così, invece di seguire la tendenza generale, ho mantenuta ferma la validità dei precedenti bisogni, senza misconoscere però che essi generavano problemi che non eravamo immediatamente in grado di metabolizzare e di risolvere. Ma per procedere in modo non dogmatico, era necessario adoperarsi a comprendere le ragioni della crisi che, agli occhi di tanta parte della società, aveva messo in discussione la validità di quegli obiettivi. Ciò che ho cercato di fare. Si è trattato di un lavoro paziente, svolto prevalentemente in un isolamento non voluto. I centri di ricerca istituzionali e gli organismi politici e sindacali erano infatti a loro volta precipitati nella confusione generale, e gli interlocutori che non seguivano le mode del momento erano rari. Fra le poche eccezioni di quegli anni ricordo un'affettuosa telefonata di Claudio Napoleoni che, avendo letto un mio primo saggio di interpretazione dell'attuale fase storica, si dichiarava completamente d'accordo e mi incoraggiava ad andare avanti, oltre alla critica severe, ma partecipata, di Federico Caffè, che mi sollecitava a non svilire le mie riflessioni teoriche cercando di dialogare ad ogni costo con chi restava sordo ai problemi, e ad andare avanti per la mia strada senza tentennamenti.

Ora una buona parte di quel lavoro è in qualche modo raccolta in questa teoria generale della necessità di redistribuire il lavoro. Alla sua elaborazione sono giunto in un momento in cui sembra che l'atmosfera generale stia finalmente cominciando a cambiare. Non solo una forza politica come Rifondazione Comunista, nella sua difficile ricerca di una strategia verso la comunità che sia all'altezza dei tempi, ha posto la riduzione del tempo di lavoro come obiettivo prioritario del proprio progetto di trasformazione, concedendomi proficue occasioni di confronto a livello nazionale ed internazionale. Ma anche nel maggiore sindacato italiano emergono timidi segnali positivi nei confronti di questa strategia di lotta. E che questi orientamenti positivi stiano lentamente permeando anche il senso comune è dimostrato dal fatto che della cosa si comincia ricorrentemente a parlare sulla stampa e sulla televisione. E' vero che di solito si va alla ricerca di risposte in pillole, e che quindi la pretesa di far poggiare la rivendicazione della riduzione del tempo di lavoro a parità di salario su un teoria generale non incontrerà un vasto favore. Ma le condizioni affinchè almeno una parte del lavoro svolto dia i suoi frutti, finalmente esistono. E questi saranno tanto più copiosi quanto più le eventuali critiche alle tesi qui svolte metteranno in evidenza gli errori e i limiti dei quali una teoria sviluppata nell'isolamento sopra descritto non può non soffrire.

Ma per quanto abbia elaborato questo testo senza poter usufruire di un normale confronto con i centri istituzionali di ricerca, non l'ho certo scritto senza godere del prezioso aiuto di altri validi interlocutori. Tra questi debbo innanzi tutto ricordare il gruppo di ricerca dell'Associazione per la redistribuzione del lavoro, formato da Corrado De Bonis, Claudio De Francesco, Guido De Marco, Antonio Di simone, Adelchi Frattaroli, Romilde Mauro, Giorgio Montesi, Marcello Palozza, Alvaro Osti, Giuseppe Romeo, Maddalena Rufo, Gaetano Sciortino, Vincenza Scotto di Vettimo, Gabriele Serafini che, con una pazienza e con una determinazione che mi sono stati di grande sostegno, ha discusso tutti i singoli passaggi del testo in incontri settimanali, fornendomi la possibilità di un continuo riscontro critico. Un affettuoso pensiero va a Romolo Di Marco, che ci ha sempre affiancato nelle nostre riunioni. Un particolare ringraziamento va poi ai miei studenti calabresi e romani che, in questi tre anni, hanno riflettuto con me su quegli elementi teorici che mi sembravano rilevanti nei corsi che tenevo. Un interlocutore particolare prezioso è inoltre stato Bruno Morandi che, con le sue osservazioni critiche, mi ha consentito di rendere chiare a me stesso molte delle cose che coglievo solo in modo intuitivo. Un ringraziamento sentito va anche alla CGIL Lombardia, specialmente a Mario Agostinelli e a Gian Marco Martignoni, e al Punto Rosso, in particolare a Giorgio Riolo e Roberto Mapelli, che, nel periodo più recente, mi hanno permesso, con seminari e incontri di studio, di confrontarmi con altri studiosi su alcuni problemi esposti nel testo. Un confronto proficuo è stato anche quello con Luigi Cavallaro, che ringrazio. Molto di quello che è qui contenuto posso infine dire di essere riuscito a scriverlo grazie a mia moglie, Vincenza Scotto di Vettimo, che continua ad essere una guida preziosa nella ricerca di un metodo che non eluda i problemi e non si rifugi in facili scorciatoie.

Non so quanto il lettore riuscirà a procedere nella lettura senza sentirsi di tanto in tanto affaticato da un linguaggio e da argomenti che forse non gli saranno abituali. Ma spero che egli terrà presente che qui ho cercato di esplorare un mondo per il quale siamo ancora a corto di parole e di pensieri, e che quindi possiamo anticipare solo se non cerchiamo un risultato bello e pronto, e accettiamo di sopportare l'onere della sua produzione. Un compito che nessuno di noi può assolvere se non sperimenta già almeno un embrionale senso di vuoto nei confronti dei modi abituali di pensare ed esprimersi.

Questo vuoto non può però essere colmato tutto d'un botto. Per questo suggerisco una lettura lenta del testo, che consenta di far sedimentare i diversi passaggi e di attuare i necessari ritorni alle argomentazioni iniziali che giustificano e sostengano quelle successive. Sarà così possibile ridurre il disorientamento che è implicito in ogni vero processo di apprendimento e di conservare la consapevolezza che, nonostante l'impostazione generale del discorso, non tutti i problemi connessi con la redistribuzione del lavoro vengono qui affrontati in modo esaustivo.

Inutile dire che ogni critica, che sia argomentata e non si limiti a ripetere meccanicamente stantii luoghi comuni, è più che benvenuta.

 

 

Pagina 228 e segg. ....

I tratti comuni e la differenza essenziale

Ma qual'è l'elemento che, se viene incluso, consente di attribuire alla proposta della redistribuzione del lavoro una valenza superiore alle altre due? Abbiamo visto, aprendo questa parte, che c'è un aspetto che accomuna le tre proposte, consistente nel riconoscimento della difficoltà di riprodurre su scala allargata il lavoro salariato, accompagnato dalla convinzione che la strada per cercare di soddisfare altrimenti un insieme di bisogni dati ed emergenti non sia per questo preclusa. Questa è dunque la resistenza sulla quale bisogna far leva per cambiare la situazione e procedere oltre sulla via dello sviluppo. Ma come è noto l'efficacia della leva dipende, oltre che dalla potenza che si applica, anche dal punto sul quale si fa leva, cioè dal fulcro.

Ora, non è difficile rilevare che nei tre orientamenti la differenza sta proprio nel modo in cui potenza, fulcro e resistenza si distribuiscono. Con il reddito di cittadinanza si sostiene che è inutile cercare di agire direttamente sulla riproduzione del lavoro, perché la vera resistenza sarebbe rappresentata dalla difficoltà di procedere all'appropriazione di un prodotto che non dipende più dal lavoro. Per questo si propone di mettere il prodotto a disposizione di tutti per diritto, svincolandolo dallo svolgimento di un lavoro e si immagina che una trasformazione dell'attività produttiva possa conseguire a questa distribuzione. Il fulcro finisce così nell'essere collocato sul solo lato oggettivo del processo di riproduzione. Con i lavori socialmente utili si sostiene, viceversa, che la resistenza sostanziale starebbe nella preclusione a riprodurre il lavoro, conseguente al fatto che si subordina la sua erogazione alla produzione di un valore di scambio. Per questo si insiste nel voler rendere possibile un lavoro aggiuntivo, immaginando che la creazione di valori d'uso possa conseguire spontaneamente da questo passaggio. Il fulcro finisce così con l'essere collocato solo sul versante soggettivo del processo di riproduzione, e corrisponde all'attribuzione per diritto di un'attività produttiva altrui.

La proposta della riduzione del tempo di lavoro a parità di salario, quando viene correttamente intesa, riconosce che la riproduzione della vita interviene attraverso un continuo movimento circolare, che include il retroagire del momento soggettivo su quello oggettivo. E quindi non fa leva su un fulcro fisso, ma piuttosto su un fulcro mobile, che insegue la resistenza nelle diverse articolazioni con le quali si presenta. Al pari della proposta del reddito garantito, cerca infatti di fare i conti con il problema dell'appropriazione di una parte del prodotto che ora può essere ottenuta anche senza lavoro. Ma a differenza di questa non ignora che lo sviluppo della capacità di appropriarsi il prodotto aggiuntivo non contiene in sé immediatamente il resto del mutamento indispensabile per portare a termine il cambiamento auspicato. Ed è a causa di ciò che, al pari della proposta dei lavori socialmente utili, cerca di fare i conti con la necessità di impiegare produttivamente il tempo che ora giace inutilizzato. Ma a differenza di questa non ignora, che la conquista di tale capacità può intervenire solo se si sviluppa allo stesso tempo una capacità di creare un prodotto in forme sociali che non sono già date, e che non possono emergere spontaneamente per il fatto che si mettono i disoccupati al lavoro.

Insomma, la proposta della riduzione del tempo di lavoro per redistribuire il lavoro rimasto e il tempo libero conquistato tra tutti, muove dal riconoscimento del fatto che siamo giunti a una svolta che impone un duplice cambiamento: da un lato il mutamento inerente alla forma dell'individualità, al modo in cui gli uomini producono i mezzi della loro sussistenza e riproducono la loro vita sociale, dall'altro lato, il cambiamento nella forma della ricchezza, nella quale quella nuova individualità può trovare una conferma di sé. Tenendo presente questa articolazione del problema, e i numerosi risvolti che implica, cerchiamo infine di entrare nel merito della proposta.

 

 

Da pag. 259

Il perseguimento dell'obiettivo della riduzione del tempo di lavoro è la manifestazione di una forma dell'individualità che non si sente «padrona di sé», né nel macrosociale, né nel microsociale, e che agogna a sottomettere a sé sia le condizioni generali di questa padronanza, cioè il tempo complessivamente reso superfluo, sia quelle particolari, cioè le forme determinate della ricchezza umana interpersonale che, pur essendo state prodotte e riguardandolo, nella media non sono ancora sue.

 

 

Da pag. 263

Una conferma intuitiva della sensatezza dell'approccio alternativo che qui proponiamo viene d'altra parte fornita proprio dalla storia. Infatti attualmente un lavoratore lavora meno della metà del tempo rispetto ai lavoratori di inizio del secolo scorso, ma riceve in cambio un ammontare di beni e di servizi che è di trenta quaranta volte superiore. Se esistesse un vincolo economico insuperabile, sulla base del quale ogni riduzione d'orario dovrebbe necessariamente comportare una diminuzione di salario, ciò sarebbe stato impossibile.

 

Ultima modifica: 20 Settembre  2023